Lirica
ATTILA

Attila fra le proiezioni

Attila fra le proiezioni

In questa riuscita edizione triestina – che peraltro riprende uno spettacolo varato il giugno dello scorso anno, ma da noi allora non recensito – molto contava la sensibile direzione di Donato Renzetti che, sin dal breve ma maestoso Preludio, imposta una concertazione assai ponderata, molto attenta al dialogo con il palcoscenico - il che vuol dire anche evitare certi stacchi rapinosi - e riesce a mantenere sempre un arco narrativo teso, pertinente e persuasivo nel rapido dispiegarsi delle scene. Una concertazione, in definitiva, che sembra procedere per ondate melodiche intense che catturano tutto il pathos dell’azione, ma senza far uso di eccessiva enfasi, specie nel tripudio d’irruenti cabalette che costella la partitura; e che non si lascia indulgere ai clamori bandistici, né tantomeno offre spazio al facile effettismo.

Per una non frequente e bella coincidenza, lo coadiuvava un cast costruito con intelligenza, radunando interpreti che hanno saputo rendere bene lo spirito e lo stile – ed affrontare le spinose tessiture - del Verdi degli Anni Quaranta. Comincio ovviamente proprio dal protagonista, che era Enrico Iori: il basso parmense sa farsi forte di un bel timbro, di una consapevole condotta interpretativa, e di una forte e magnetica personalità; così il suo Attila risulta barbaramente virile, ma mai crudo e volgare; tutta la scena della narrazione del sogno “Mentre gonfiarsi l’anima”, preceduta da un buon recitativo, è resa con pienezza drammaturgica e mettendovi il giusto fraseggio, lo stesso che rende autorevole il momento di “Vanitosi! Che abbietti e dormienti”,  virile reazione nel fronteggiare le avances del subdolo Ezio.
Odabella era nelle mani del giovane soprano russo Anna Markarova che “Attila”, prima di cantarlo qui già l’anno scorso,  l’aveva già registrato con Valery Giergiev; è stata pure da poco un’apprezzata Abigaille al Comunale di Firenze, affrontando insomma due ruoli assai affini, ed entrambi assai impegnativi.  Voce consistente e luminosa, la sua, che fatta salva qualche occasionale asprezza negli acuti mostra di saper poggiare su una ragguardevole colonna di fiato; dote naturale generalmente ben addestrata e ben amministrata, tanto da superare senza impedimenti il tremendo salto di due ottave - quel “Santo di patria indefinito amor!” con tanto di bel do sovracuto - che la catapulta in scena, per poi procedere tecnicamente impavida nel successivo cammino. Tutto bene? Non proprio…tocca dire che è il vero carattere del personaggio che le fa difetto, per quel benedetto frainteso che fa di Odabella un’infuriata virago, lasciando così a giacere nel limbo tutte o quasi le sfumature psicologiche che contraddistinguono un personaggio sempre in bilico tra amor di patria, desiderio di vendetta e slancio amoroso per il suo Foresto. Come accade, ahimé, ad esempio nell’abbandono accorato di «Liberamente or piangi…» dove la Markarova non sa (o non vuole) rimettere nel fodero la spada per farsi fanciulla trepidante d’amore.
Il ruolo baritonale di Ezio – un condottiero per così dire ‘double face’, che blatera di virtù patrie per convenienza e proprio comodo, mentre trama per il personale potere  - ha trovato un buon servizio da parte di Devid Cecconi, pronto a  giocare bene le carte di un timbro chiaro e facile agli acuti, di una voce robusta e dipanata con facile scioltezza, e di un ben gestito fraseggio: tanto che il tête-à-tête con l’Attila di Iori direi sia finito alla pari con due vincitori, e il lungo momento solistico di «Tregua è cogl’Unni! ...Dagli immortali vertici » è un momento di schietta affermazione personale. Altrettanto dicasi per il Foresto di Sergio Escobar: voce fresca e dal colore argentino, che sgorga limpida e liquida, spavalda nell’emissione e ben solida nel centro, sempre svettante negli acuti;  magari non sempre ricca di sfumature cromatiche dato che il duetto con Odabella risulta un po’ monotono nell’espressione, mentre meglio assai s’è mostrato questo giovane cantante spagnolo nel monologo “Qual notte!...Ella in poter del barbaro!”  concluso da una brillante cavatina. Comunque se ne parli, è una bella e promettente voce tenorile, incisiva nel segno e con un irruente accento: mai lamentarsi del brodo troppo grasso, avrebbe detto i nostri nonni…
Restano infine solo due comprimari da commentare: e sono il buon Uldino di Antonello Cerone, ed il solido Leone di Gabriele Sagona. Precisa la prestazione del Coro diretto Paolo Vero; come sempre, puntuali e calibrati i ranghi dell’Orchestra del Teatro Verdi.

Varato nel massimo teatro triestino nel giugno dell’anno scorso per le celebrazioni verdiane, questo “Attila” è il proficuo connubio tra l’intelligente guida registica di Enrico Stinchelli –  una metà del ben noto duo che conduce da tempo immemore la gloriosa trasmissione RAI «La barcaccia» - e le belle invenzioni sceniche di Pier Paolo Bisleri, poggiate su pochi elementi solidi - come il trono di Attila, fatto di innumerevoli spade fuse tra loro, o l’alta colonna che sostiene la Lupa romana – mischiate a suggestivi elementi illusori plasmati dal videomaker Alex Magri e dalle luci di Gèrald Agius Ordway. Un mix dalla grande spettacolarità, con dinamiche immagini che sanno rievocare a perfezione le fumose rovine di Aquileia, l’accampamento degli Unni, il nebbioso lido di Rivo Alto, il bosco ombroso che accoglie Odabella, oppure un furioso galoppare di selvaggi guerrieri; fra tutte, resta impressa sopra tutto la fascinosa apparizione di Leone tra le alte navate di una eterea cattedrale ricreata dal nulla. Portano la firma di Bisleri anche gli accurati costumi, che evocano con libera fantasia un evo brutale e lontano. In veste di regista Stinchelli procede con assennatezza ed equilibrio, scovando nel testo buoni spunti scenici; mi pare che sappia mettere in campo in ogni momento la giusta dose di teatralità – anche la scena iniziale che prevede «gemiti, sangue, stupri» è scenicamente assai coinvolgente, ma senza strafare  – assecondando bene il procedere dell’azione; e se il brusco finale appare come sempre un po’ incongruo, non è certamente colpa sua.

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)