Torna a Parma l'Attila nel nuovissimo allestimento di Andrea De Rosa, e con gli abiti – banalucci, vien da dire, nell'anonima modernità – di Alessandro Lai.
Torna a Parma l'Attila nel nuovissimo allestimento di Andrea De Rosa, e con gli abiti – banalucci, vien da dire, nell'anonima modernità – di Alessandro Lai. Il progetto scenografico di De Rosa s'avvia col bell'effetto d'un muraglione che crolla, aprendo una breccia per l'orda dei barbari, e prosegue attraverso paesaggi sempre aspri, foschi, nebbiosi, dai suoli intrisi di cadaveri e sangue, dove aleggia un ferale senso di morte. Usa con sapienza luci e velature, ma sceglie ahimè la solita poltrona Frau a far da trono.
Come nel Macbeth di Abbado, però di aspetto un po' diverso. E' sua anche la curata e concentrata regia, consegnando una buona performance drammaturgica, che procede senza deviazioni. Trascura un po' la figura fondamentale di Attila – Verdi la percepiva in positivo, come nel dramma del Werner che trovava ricco di «squarci di poesia potentissimi» – negandole quei tratti carismatici che le sarebbero propri. Buon per noi che Riccardo Zanellato, con la bella nobiltà d'accento, il fraseggiare ampio ed intenso, l'eccellente solidità vocale, recuperi all'orgoglioso capo unno dignità e spessore; e ci consegni un Attila a tutto tondo, scavato e vigoroso anche nella lugubre allucinazione notturna di “Uldino! Uldin!”.
Esultanza di voci... e di cabalette
Versione integrale, con tutti i da capo rispettati. Nel programma di sala troviamo una divertente definizione di Attila, ad opera di Giuseppe Martini: “L'invasione delle cabalette”, ammiccamento ironico al tripudio di cabalettismo che marca la nona opera verdiana. In questo, va detto, a Parma nessuno si è tirato indietro. Energica contro spalla ad Attila è Maria José Siri: nella sua agile Odebella troviamo molta varietà di colori, e quei chiaroscuri espressivi che alternano gli scatti d'orgoglio – vedi la svettante entrée sulle due ottave di “Santo di patria” – alle languide volute melodiche di “Liberamente or piangi”.
Vladimir Stoyanov delinea totalmente - quel suo personale timbro, brunito e vagamente cupo ben asseconda certe figure verdiane - l'ambizione e l'audacia del romano Ezio, con un canto irreprensibile che culmina nella grandezza di “Dagli immortali culmini”. Francesco Demuro non pare aver del tutto superato l'indisposizione che l'ha afflitto durante le prove: pur apprezzando la buona volontà di recuperare la scena, spiace vedere in palese difficoltà, nella parte di Foresto, un interprete che solitamente brilla per garbo e solidità vocale. Imponente il Leone di Paolo Battaglia, corretto l'Uldino di Saverio Fiore.
Una direzione “alla garibaldina”
Nel golfo mistico la Filarmonica Toscanini, sul podio Gianluigi Gelmetti. La sua chiave interpretativa punta tutto sull'irruenza, sullo scatto dinamico, sull'enfasi retorica tipica del Verdi quarantottino. Negandosi così certe finezze agogiche, certe mezze tinte pur opportune, come quelle richiamate nel fosco Preludio, o nell'alba sulla Laguna. E' un po' tutto la parabola dinamica ad apparire appiattita su quel tutto forza che Verdi prescrive solo a tratti. Scelta, peraltro, che a taluno può andar bene; e difatti il pubblico lo ha applaudito con calore. Il Coro del Teatro Regio, preparato da Martino Faggiani, è come sempre bravissimo. Questa è un'opera in cui deve saper restituire tante contrapposte psicologie; e lo fa a perfezione.