Insieme ai suoi compagni Nicola Pistoia interpreta e dirige questa versione tutta romana e italiana del problema dell’integrazione, e dei difficili rapporti con gli extracomunitari, in un’ottica sicuramente più leggera di quanto abituati a sentire e vedere in giro, ma non per questo meno amara o realistica.
La situazione che si viene a creare nella casa di Sergio e Maria, sua sorella – lui, un stuntman che ha rinunciato in seguito a un incidente e ora centurione foto-ricordo al Colosseo; lei costretta a costellare le sue giornate di improbabili tête-à-tête erotici per la chat per cui lavora – si complica ulteriormente in seguito al (provvidenziale) arrivo di Milan, ingegnere bielo-russo dalle mani d’oro, che porterà alla famiglia inattesi benefici… e qualche problema.
Il canovaccio è semplice e universale e, nell’attuale modo di guardare le cose, non si fatica a stare dietro e a ridere dei primi tempestosi rapporti tra Sergio e Milan, comicamente complicati dalle difficoltà linguistiche che ricalcano quelle culturali. È solo però nella seconda metà dello spettacolo che la storia, con tutti i suoi significati reconditi, decolla davvero, quando alle prime entusiastiche vicende della nuova società fondata dai due per incrementare i propri guadagni (“dividiamo, sicuro: 70 a me e 30 a te!”) e coronata dall’idea vincente di portare in giro i turisti con una biga “alla Ben Hur”, si sommano grattacapi inattesi, dovuti a Maria che, invaghita dell’ingegnere, e scoperta la presenza di una moglie in Bielorussia, si rende protagonista di una crudele e inattesa vendetta finale.
La commedia tout court si vena di problematiche più attuali riscritte tuttavia sempre in chiave comica, dove i rapporti umani sono costantemente messi alla prova da una mentalità fatta di luoghi comuni, di ignoranza, che alla fine è comunque destinata a dominare quei pochi momenti di verità e di apertura destinati a un essere umano che, sebbene definito “cristiano”, resta sempre ‘altro da noi’.
Così se Pistoia è inconfondibile nel suo romano d.o.c. opportunista, immediato e disarmato nella sua primitività, una parte inedita spetta a Paolo Triestino che fornisce il suo Milan, oltre che di convincente accento slavo, di accenti umani e poetici che lo mettono immediatamente al centro di tutta la storia, anche se qua e là predomina un certo buonismo nella sua caratterizzazione e un’ingenuità non del tutto credibile.
Giganteggia sopra tutti la splendida Elisabetta De Vito, che ripropone il calco e la concretezza di una donna del popolo come di fatto a Roma non sembrano più esisterne, non tanto nei modi, o nella parola, quanto in una prova interpretativa di eccezionale levatura, generosissima e amara nel taglio finale, quello dove finiscono le risate e ci si trova di fronte a uno specchio dove ogni pregiudizio, ogni ipocrisia vengono messi in risalto in maniera inconfutabile, senza appello.