Prosa
BEN HUR

Una storia di lavoro ed amicizia

Ben Hur
Ben Hur

Dopo aver fatto ridere per poco più di un’ora e mezza, il finale di "Ben Hur" è amaro e aperto: non si sa cosa succederà dopo. Un bozzetto di vita, un dramma sociale e umano, realizzato con spessore ed intensità. La recensione dello spettacolo.

Pupo, Toto Cutugno, Stravinskji, il film  “Il gladiatore”, “Salvate il sodato Ryan” e quello su “Ben Hur” con Charlton Easton, Antonello Venditti e la sua “Grazie Roma” sono solo alcuni degli artisti e delle opere citate in “Ben Hur. Una storia di ordinaria periferia”, fortunata pièce teatrale scritta da una delle colonne portanti della drammaturgia contemporanea italiana come Gianni Clementi ed allestita da un’ottima coppia teatrale romana dedita alla scoperta delle opere contemporanee come Triestino e Pistoia.

Uno spettacolo divertentissimo e al contempo fortemente sociale.
E’ un dramma sui ceti bassi e sulla povertà, come altri dei testi di Clementi, ed è ambientato ai giorni nostri. E’ molto credibile. E’ un dramma contemporaneo fatto per i contemporanei.
Sergio (Nicola Pistoia), divorziato, è un ex-stuntman che, avendo subito un infortunio ed in attesa di un risarcimento, sbarca il lunario vestendo i panni di un centurione romano per i turisti davanti al Colosseo. Sua sorella Maria (Elisabetta De Vito), invece, ha trovato lavoro in una chat erotica, prima di rimanere disoccupata quando questa chiude.
Un giorno arriva nella loro vita Milan Stravinskji (alias l’esilarante e bravissimo Paolo Triestino), un ingegnere bielorusso venuto clandestinamente in Italia (che ha visto in tv) attirato dall’idea di un facile e alto guadagno. Effettivamente molti soldi riuscirà a racimolarli sostituendo Sergio nel ruolo del centurione e poi in quello dell’imbianchino ed in altri lavori, sempre con ottimismo e con il suo saper trovare soluzioni; ma mentre fa questo, Clementi ci mostra la condizione di vita a cui è sottoposto: la durezza ed arcigna taccagneria di Sergio, la disillusione di Maria, il malanno che lo coglie improvvisamente e la pressione bassa di cui soffrono i fratelli Sergio e Maria, i ricordi della famiglia lasciata vicino Minsk, la famiglia di Sergio, gli amici di quest’ultimo che, di conseguenza, diventano amici anche di Milan, l’ignoranza di Sergio di fronte alla facilità di calcolo e sveltezza dell’ingegnere clandestino,…
Quindi, ciò che Clementi mette in scena è anche il dramma della clandestinità accompagnato da quello della diversità.
L’unico modo che Milan ha per farsi amare da Sergio è quello di lavorare più di lui. Ma questo non è difficile farlo perché anche nello stereotipo comune del russo ci rientra il lavoro dell’ingegnere, l’abilità nel fare i calcoli e la razionale irrefrenabilità lavorativa.

Guardando lo spettacolo si ride dall’inizio alla fine, sebbene, forse il II atto perda un po’ del ritmo per ancorarsi invece più saldamente al ritratto sociale e alla costruzione ed utilizzo della biga romana.
La pièce diventa la storia della nascita di un’amicizia tra i due. Dall’iniziale, odiosa ed immotivata scontrosità di Sergio nei confronti del bielorusso, si arriva fino al dolore ed alla delusione di Segio quando scopre che l’ormai irrinunciabile amico-lavoratore è stato scoperto nella sua clandestinità, sebbene sia riuscito a fuggire.
Clementi (e con lui Pistoia in veste di regista) conclude la storia proprio qua. Dopo aver fatto ridere per poco più di un’ora e mezza, il finale è amaro (come altre delle sue opere) e aperto: non si sa cosa succederà dopo.
Un bozzetto di vita più che una storia.
Un dramma sociale e umano, realizzato con spessore ed intensità.

Visto il 12-12-2013
al Comunale - Ridotto di L'Aquila (AQ)