Benvenuto Cellini è ambientata a Roma ma vi è andata in scena una sola volta oltre vent'anni fa. Il presente allestimento è frutto del talento visionario di Terry Gilliam, regista cinematografico già componente dei Monty Python. L'opera, pur presente raramente sui palcoscenici, è un capolavoro che ebbe nascita travagliata: respinta dalla direzione dell'Opéra-Comique, la partitura fu rielaborata dall'autore togliendo i dialoghi (obbligatori all'Opéra-Comique) a favore dei recitativi per essere rappresentata all'Opéra nel 1838 ma senza successo tanto che Berlioz apportò tagli e aggiunte e sostituzioni ma il teatro rifiutò la seconda versione, poiché Benvenuto Cellini non poteva favorire il gusto del pubblico dell'epoca, che ne fu scandalizzato.
Da questo parte Terry Gilliam per il suo splendido spettacolo giocato su visioni oniriche e personaggi bizzarri: sul velatino durante l'ouverture compare un titolo di giornale con pesante doppio senso e, in diversi momenti, il regista calca la mano come con il sileno dal fallo enorme (un cetriolo fra due mele) durante la pantomima. Ma il pubblico di oggi (giustamente) non si scandalizza, anzi ride di gusto e applaude. La scena, dello stesso regista insieme ad Aaron Marsden da un'idea originale di Rae Smith, è tutta in bianco e nero con interni claustrofobici e quasi carcerari e rimanda a un certo cinema in cui il gotico noir parte dalle incisioni di Piranesi ma è rivisto con ironia e sguardo contemporaneo: soprattutto ha il pregio di ambientare efficacemente la vicenda in diversi ambienti con pochi cambi a vista. Prevale un senso di buio e sotterraneo che dà un risalto ancora maggiore al Carnevale che inizia in platea per poi trasferirsi sul palcoscenico. Fantasiosi e perfetti per l'allestimento i costumi ottocenteschi (ma rivisitati) di Katrina Lindsay e le luci teatralissime di Paule Constable; necessari a completare l'opera, soprattutto nella scena della fucina, i video di Finn Ross. Da citare la co-regista e coreografa Leah Hausman e Natascha Metherell che ha ripreso la regia a Roma.
Il pregio maggiore della regia è avere colto gli spunti di Berlioz e averli attualizzati senza stravolgere né il libretto né la messa in scena, per cui i due lunghi atti si lasciano ben seguire, avvincendo lo spettatore. Per citarne uno a titolo di esempio, le numerose governanti di casa Balducci affidate a mimi en travestì di grande bravura impegnati in una curatissima recitazione nei movimenti, nei gesti, persino nell'espressione dei visi. E che dire del mimo che accompagna Ascanio? Di superlativa bravura.
Roberto Abbado non ha problemi a gestire l'imponente orchestra ottenendone una affascinante densità strumentale che sottolinea i colori della partitura e di questa sostiene i ritmi veloci senza rinunciare alla morbidezza del suono, anzi forse è proprio negli episodi più intimi che trova il suo passo ideale, pur non trascurando le grandi scene corali dove eccelle, sia dal punto di vista vocale che interpretativo, il coro del Teatro preparato da Roberto Gabbiani. Nelle scene di massa lo spettacolo funziona proprio perchè la regia regala visioni grottesche e visionare e Abbado garantisce un governo perfetto della buca con controllo totale di ogni sezione strumentale.
John Osborn affronta il difficilissimo ruolo del titolo con molta baldanza e dimostra di essere correttamente all'altezza della parte in ogni registro: il centrale è robusto e screziato di bruniture, l'acuto è solido e luminoso; il tenore fraseggia in modo eccellente e usa una tecnica curatissima che lo porta a eccellere nei passaggi in cui sono fondamentali leggerezza e dolcezza. Una rivelazione la giovane Mariangela Sicilia: la sua Teresa ha bella voce, morbida e seducente, e spicca nelle colorature, mentre i momenti intimi sono assai appassionati e si dimostra di gran temperamento quando serve. L'Ascanio di Varduhi Abrahamyan è parimenti sorprendente: la linea di canto è solida e ricca di armonici e chiaroscuri ragguardevoli, il timbro è bello e il volume importante ma ben gestito, la capacità attoriale notevolissima e gli acuti dell'aria del secondo atto non le creano alcuna difficoltà. Nicola Ulivieri è un ottimo Balducci, elegante e di notevole personalità: è lui che fornisce un solido fondamento teatrale alla vicenda che non diventa macchiettistica. Alessandro Luongo è un Fieramosca bello ed elegante, l'opposto di Cellini nel fisico e nell'abbigliamento, a tratti vocalmente sovrastato dall'orchestra ma non nel duetto perfetto con Andrea Giovannini (Pompeo). Immagine surreale il Papa di Marco Spotti, truccato e abbigliato come fosse Turandot; il basso è in grado di sprofondare negli abissi della partitura con grande presa emotiva. Francesco e Bernardino, i due aiutanti di Cellini, hanno parrucche vistose, disinvoltura scenica e voci adeguate, rispettivamente quelle di Matteo Falcier e Graziano Dallavalle. A completare il cast il Taverniere di Vladimir Reutov.