Il Festival di Ravenna ha il merito di proporre sempre rarità di grande interesse, come l'oratorio “Betulia liberata” composto dal quindicenne Mozart su testo di Pietro Metastasio. La musica preannuncia quelli che saranno gli sviluppi del talento del compositore e certe accademicità e lungaggini, soprattutto nei recitativi accompagnati, sono ampiamente compensate da pagine di grande fascino, come l'ouverture e il coro finale. Prezioso poi il confronto con il medesimo titolo di Jommelli a Sant'Apollinare in Classe, recita unica da noi persa per seguire il Faust della Scala.
La storia è quella della città ebraica di Betulia, assediata dagli assiri capeggiati da Oloferne e liberata da Giuditta, uscita coraggiosamente dalle mura per affrontare l'uomo e decapitarlo. Su questo plot scarno si innestano temi teologici e sociali. Avvincente l'idea che mentre i due capi popolo stanno a filosofeggiare sulla natura di Dio, Giuditta decapiti Oloferne.
Marco Gandini cerca di animare sul palco quello che a tutti gli effetti è un oratorio: il risultato è statico sì, ma si lascia ben seguire, grazie a un attento uso delle masse, concepite come gli ebrei nel Nabucco (un popolo gemente di repressi, tormentati, affamati, che vagano come fantasmi) e a una ricerca di gestualità rivelatrice dell'interiorità da parte dei protagonisti.
Suggestiva la scena astrattamente geometrica di Italo Grassi, una scultura di arte contemporanea, una specie di fiore di acciaio: tre pareti curve concentriche, le cui due centrali ruotano rivelando o celando lo spazio. Pareti che paiono realizzate con lastre di ferro saldate insieme e che hanno anche la funzione di camera acustica, esaltando le voci. Gli oggetti di scena si limitano ai classici tavoli di studio delle scuole delle sinagoghe, un grande monumento-cerchio per la disputa teologica e un soffitto tondeggiate inclinato (a specchio) per il lungo recitativo di Giuditta del secondo atto. Nel finale un taglio nel nero fondale: la parete si alza, rivelando un bianco totale e un sole chiarificatore.
Splendidi i costumi di Gabriella Pescucci, giocati nei toni terragni per tutti tranne che per Giuditta, che risplende nell'azzurro e nel rosso, come Salomè, voluttuosa e tentatrice, dopo un inizio dimesso che ne rivela la vera natura e il suo sacrificio per la patria e i concittadini. La Pescucci è attenda ai minimi dettagli, le strisce nere attorcigliate alle braccia che spuntano da sotto le palandrane (Ozìa), la collana con ciondolo prezioso per denotare una nobile (Amital), le calzature per il principe straniero (Achior) mentre tutti gli altri sono sempre a piedi nudi.
Completano in modo significativo la bella messa in scena le luci appropriate di Marco Filibeck, che esaltano la suggestione della scenografia e dei costumi.
Riccardo Muti è imbattibile su questo repertorio. Sul podio rende al meglio la vitalità della partitura senza mai eccedere, rendendo una sonorità calda e piena con tempi serrati e compatti e note cesellate. L'Orchestra Giovanile Luigi Cherubini rende al meglio, a cominciare dall'ouverture, quando gli archi spingono sulle cupezze: non ci sono dubbi, è una vicenda di morte. Ma anche nei da capo delle arie, sempre nuovi e inattesi e nei recitativi, accompagnati in modo assai suggestivo.
Alisa Kolosova è una Giuditta giovane e di grande fascino, dalla significativa presenza scenica che sfrutta per un ruolo reso più nelle sfumature sedicenti che drammatiche; la voce è bella, morbida nelle agilità affrontate in modo rotondo, senza asprezze; il ruolo però presuppone un contralto e la cantante si rivela un poco chiara nel colore.
Michael Spyres è un Ozìa dalla recitazione intensa ed emozionante e dalla voce pulita e luminosa, che rivela qualche difficoltà nei passaggi acuti più ardui (evidenti nell'aria “Se Dio veder tu vuoi” del second'atto).
Si sente subito che le interpreti di Amital, Cabri e Carmi (rispettivamente Marta Vandoni Iorio, Barbara Bargnesi e Arianna Vendittelli) sono italiane in un cast internazionale, per la loro dizione perfetta e la scansione assai musicale del verso metastasiano; vocalmente prestazioni di pregio le loro. Bravo Nahuel di Pierro, la cui voce scura dà solennità a Achior.
Perfetto il Philharmonia Chor Wien, preparato da Walter Zeh.
Teatro gremito, vivo successo di pubblico.
Bellissimo e curatissimo, come sempre, il libro del Festival che quest'anno, in omaggio al titolo della rassegna “Ex tenebris ad lucem”, lascia il tradizionale nero lucido per un più consono e speranzoso bianco satinato.