Lirica
BORIS GODUNOV

Venezia, teatro La Fenice, “B…

Venezia, teatro La Fenice, “B…
Venezia, teatro La Fenice, “Boris Godunov” di Modest Musorgskij MEMORIE DAL SOTTOSUOLO Musorgskij scrisse Boris Godunov traendone egli stesso il libretto da Pushkin nel 1869 ma l'opera fu rifiutata dai teatri imperiali russi con la motivazione che mancava di una protagonista femminile. C'è da considerare che l'opera appariva poco allineata ai canoni dell'epoca e per di più tratta da un romanzo fortemente connotato ideologicamente ed innovativo nei confronti delle trame teatrali tradizionali. Il compositore si mise immediatamente al lavoro, ne modificò l'impianto che passò da sette scene a un prologo e quattro atti ed aggiunse un intero atto, il terzo, definito “polacco”. L'opera, terminata nel 1872, andò così in scena con successo al Mariinskij di San Pietroburgo nel 1874, ma ciononostante fu oggetto di numerose rivisitazioni e orchestrazioni, le più conosciute delle quali sono di Šostakovič e Rimskij-Korsakov. Boris Godunov è una delle partiture capitali del teatro musicale, tanto che secondo Aaron Copland è una delle tre opere riconosciute come pietre miliari nello sviluppo della musica moderna, insieme a Pelléas et Mélisande di Debussy e Le sacre du printemps di Stravinskij. Alla Fenice è andata in scena la versione del 1872 che invero, rispetto all'Ur-Boris ascoltato nella precedente stagione del Comunale di Bologna (direttore Daniele Gatti, regia Toni Servillo – recensito dal sottoscritto nel sito), appare meno efficace drammaturgicamente e musicalmente meno compatto e serrato (l'atto polacco non è necessario). L'allestimento è quello del Maggio Musicale 2005 ideato da Eimuntas Nekrošius, vincitore del Premio Abbiati come migliore spettacolo dell'anno. Il tema dominante è l'uomo che raggiunge l'apice del potere politico ma è schiacciato dal rimorso dell'omicidio con cui ha iniziato l'ascesa, un percorso interiore in cui Boris è in continuo rapporto col senso di colpa. L'opera consente un'alta riflessione sul potere politico e sul senso contraddittorio di tale potere. Per questo appare estremamente moderna, nella distanza della politica dal reale tessuto sociale, nelle lotte per il potere, nell'idea che “la plebe ignorante è facile da sobillare”. Molteplici sono gli agganci con le creazioni di Shakespeare, come bene mette in luce Guido Paduano nel suo saggio contenuto nel programma di sala. Il regista Eimuntas Nekrošius colloca la vicenda in un sottosuolo di cunicoli, gallerie, cavità, come un termitaio gigante o la tana di grandi talpe, al di sopra della quale spunta un campo di grano, ma anch'esso schiacciato da un soffitto nero incombente. Cunicoli talmente bassi che l'umanità che li popola è piegata in due. Un sottosuolo occupato da intrighi e lotte per il potere. Non c'è luce solare, non c'è aria in questo luogo asfittico e claustrofobico (bella la scena fissa di Marius Nekrošius, che a me ha ricordato Vardzia, nella Georgia; appropriati i costumi fantasiosi di Nadezda Gultyaeva). La vicenda è dominata dalla crudeltà, dall'incultura, dalla follia, da coazioni e da colpe: le prime impossibili da evitare, le seconde impossibili da elaborare. Come sempre, Nekrošius dà vita a una foresta di simboli e di emblemi, spesso di non immediata decifrazione, ma che comunicano un senso teatrale alto e profondamente vero, anche quando sembra sfuggirci la chiave interpretativa. Specchi, sacchi, culle, fuoco, acqua, cavallini di legno, giganteschi fiori-bulbo, forche, croci, mestoli-campane, libri che pesano come macigni (narrano infatti degli abusi del potere politico), uomini dagli stivali smisurati (difficile uscire dalla palude del potere), asce, scope di saggina dal manico lunghissimo, uomini-uccelli, serpenti che si srotolano da bastoni, monaci che hanno le vesti stampate con le lettere dell'alfabeto cirillico, la stessa che vestirà Boris nel finale. E i tipici comportamenti del lituano che si ripetono ossessivamente: qui la gestualità è riferita al pulire, spolverare oggetti, spazzare pavimenti, sbattere mantelli e abiti, una necessità di pulizia dalla colpa, dalla follia, dalla crudeltà. Ma è tutto inutile. “Sgorgate, sgorgate, lacrime amare, piangi anima ortodossa! Presto arriverà il nemico e scenderà l'oscurità, tenebre profonde e impenetrabili. Dolore, dolore sulla Russia. Piangi popolo russo, popolo affamato!” così canta in chiusura il Folle in Cristo, personaggio qui meno in evidenza, ma a cui è riservato il poeticissimo finale: egli appoggia nastri colorati ai rami secchi di un albero, dietro schiene di uomini e donne prima gobbi per le troppe incurvature e quindi piegati a terra, un mare di schiene di sconfitti, vinti e affamati dagli abusi del potere. Il sottosuolo della civiltà. Eliahu Inbal, assecondato da orchestra e coro della Fenice e dai piccoli cantori veneziani, ha bene evocato la malinconia russa con tono misurato,evidenziando il legame fra orchestra, coro e solisti. Straordinario il Boris sofferto e preciso di Ferruccio Furlanetto, accompagnato da un cast complessivamente di buon livello in ruoli, anche quelli non estesi, che richiedono notevoli capacità e caratterizzazione: Alexandra Durseneva (nutrice), Marcello Nardis (Šujskij), Ian Storey (l'impostore), Maxim Mikhailov (Varlaam), Bruno Lazzaretti (Misail), Francesca Franci (l'ostessa), Annika Kaschenz (Fedor), Francesca Sassu (Ksenija) e Julia Gertseva (Marina). Teatro gremito, pubblico immoto alla fine dei quadri, plaudente alla fine. Visto a Venezia, teatro La Fenice, il 20 settembre 2008 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)