“Era un diverso e la diversità consisteva nel coraggio di dire la verità”. Alberto Moravia nel ‘75, in occasione dei funerali di Pier Paolo Pasolini, rivendicò la concezione dei tempi di Oscar Wilde, quando il termine “diverso” non faceva paura, anzi era sinonimo di originalità orgogliosamente ostentata, mentre a Pasolini costò l’espulsione dal partito. “No, non avete sbagliato serata, parliamo proprio di Caravaggio”, tranquillizza Vittorio Sgarbi. Effettivamente il dubbio ci aveva assaliti. Pasolini è un transfer di Caravaggio. Entrambi vissero una vita doppia, divisa tra elementi contrastanti e compenetranti, tra le trasgressioni alla ricerca della parte più terrena di sé e l’elevazione artistica. I ragazzi di periferia prescelti come modelli dal pittore sono gli stessi amati e portati sullo schermo dal regista: Ninetto Davoli ha i tratti euforici del “Fanciullo con canestro di frutta”; Franco Citti è venato di malinconia come il “Bacchino malato”; l’assassino Pino Pelosi richiama nell’impudicizia espressiva “Amor vincit omnia”, in un parallelo che fa riflettere.
Pasolini attinse alle ottiche innovative di Caravaggio, ai tagli di luce che ne fecero un precursore di ogni arte visiva. L’input è venuto dal libro “Dal punto di vista del cavallo”, ovvero il destriero imbizzarrito che disarcionò San Paolo nella “Conversione”: un’inquadratura “cinematografica” che rovesciò i soggetti, facendo dell’animale un protagonista e del cavaliere la figura di contorno. Con il “Ragazzo morso da un ramarro” e soprattutto nelle decollazioni di Oloferne e di San Giovanni Battista, Caravaggio inventò la fotografia. Con i pennelli immortalò l’istante, trasferì sulla tela i sentimenti di vittime e carnefici, che ritroveremo secoli dopo in scatti celebri come quello, vincitore del Pulitzer, del fotografo Eddie Adams che nel ‘68 ritrasse un Vietcong giustiziato, o ancora l’uccisione di un soldato spagnolo di Robert Capa del ‘36. La morte è fissata nell’attimo stesso in cui prende il posto della vita, con il suo corredo di orrore. Il medesimo suscitato delle immagini proiettate del corpo senza vita di Pasolini, con il volto ridotto a una maschera di sangue. Al termine di una vita trascorsa a fuggire perché ricercato per omicidio, Caravaggio prestò il proprio viso alla testa mozzata di Golia. Egli si indentificò cioè in una figura negativa e parve chiedersi, suggerisce Sgarbi, cosa fosse il bene e cosa il male.
“Prendete una ragazza sopra i cinquanta: solo lei sa che Carpaccio non è un piatto di carne cruda ma un pittore, i cui rossi accesi diedero il nome alla vivanda”. L’Onorevole non ha perso la mordace capacità di indignarsi per la latenza di cultura odierna. Un esorcizzante accenno ai recenti problemi di salute “che mi hanno reso quasi vecchio” e la dicotomia iniziale si è estesa anche a lui, diviso tra i bui irosi dello spirito sanguigno, nella presente occasione insolitamente edulcorati, e la luce dell’arte.
Tre schermi rettangolari appesi a una parete espositiva hanno concretizzato il “Bignami caravaggesco” e anche il racconto ha proceduto per quadri, inframezzati dalla promenade musicale di Valentino Corvino. Si è cercata una confezione teatrale per quella che, sostanzialmente, è rimasta una conferenza, prevedibile e identica a molte altre. Ma in fondo che importa? Il suono del violino dal vivo si è accavallato alla base in playback così come il personaggio Sgarbi si è sovrapposto alle figure dipinte. Lui era il vero soggetto protagonista. Il suo carisma affabulatorio, solo un poco appannato dal timbro di voce fattosi screziato, non ha avuto bisogno di sovrastrutture. Lo spettacolo era lui e il pubblico era venuto per lui. E se, applaudendo il critico, ci è scappato pure un apprezzamento rivolto all’arte, tale traguardo è stato sufficiente a conferire valore all’operazione.