Il direttore artistico Francesco Micheli ha affidato le regie dei due nuovi allestimenti in cartellone (Carmen e Bohème) a due giovani registi di prosa che hanno portato idee nuove e interessanti, in questo caso Serena Sinigaglia alla prova di Carmen.
La scena di Maria Spazzi è dominata dal vuoto, il muro dello Sferisterio è aperto solo da una breccia, il palco ha qua e là piccoli mucchi di materiale di risulta (sabbia, mattoni, breccia) che creano un senso di disfacimento e di impossibile ricostruzione, i luoghi funzionali al plot vengono creati con transenne metalliche variamente disposte ma a richiamare costantemente la separazione, una segregazione imposta dall’alto e con la forza. Come se il mondo “normale” fosse oltre quell’apertura sbreccata, oltre il luogo dove sono confinati i protagonisti e che pare l’unico che li accolga. Il mondo al di qua del muro è un mondo di sporte di plastica, scatoloni, cassette per le bottiglie usate come oggetti di arredamento: un mondo fatto con gli scarti degli altri.
Le luci di Alessandro Terrazzi da sole sono chiamate a suggerire un sud di colori aranciati e solari che contrastano con la freddezza celeste di alcuni momenti.
Ai costumi di Federica Ponissi il difficile compito (ma perfettamente riuscito) di situare l’azione nell’oggi e in quella realtà di periferia dove rom e diseredati vivono insieme, occupati in piccoli traffici di contrabbando, una realtà dove deboli ed emarginati vengono accolti senza problemi, alla pari.
Serena Sinigaglia non cede al bozzettismo e al richiamo scontato di dettagli che il pubblico si aspetta. Serena Sinigaglia, coraggiosamente e intelligentemente, dà un segno personale, forte e teatralissimo alla vicenda. Non vuole riempire a tutti i costi il palcoscenico: lo fa benissimo la musica e, come sulla sinfonia, bastano un paio di mimi a dare un senso poetico alla parte visiva. La regista caratterizza alla perfezione i personaggi con una grande cura nei dettagli dei gesti, della postura, dei movimenti. Nulla è casuale o scontato ma tutto è invece funzionale all’azione e all’idea registica pregnante prova di intenti provocatori. Se i numerosi poliziotti all’inizio richiamano per un attimo lo spettacolo di Calixto Bieito visto alla Fenice recentemente (recensione presente nel sito), qui è meno calcato l’aspetto della sopraffazione e della violenza. I poliziotti schierati sorvegliano il campo rom, ripetono tutti la stessa azione comandata, senza poter pensare e decidere da sé. Presente la denuncia del rapporto forte-debole, la vigliaccheria del sopruso dell’autorità, quando il cittadino diventa suddito oppure perde la propria individualità di uomo. In questa regia intelligente e curatissima è parso banale che le sigaraie entrino in scena fumando. Basta una coperta tesa per creare l’effetto interno nella caserma. Le transenne separano e isolano, ma i bambini ci passano attraverso e mendicano qualcosa da mangiare a soldati compiacenti che volentieri danno qualcosa ai piccoli zingari sporchi e laceri.
Carmen entra in scena parlando al cellulare, anzi urlando “Forse domani” prima di riattaccare. Carmen è in pantaloni e stivali, i capelli lisci e lunghi, la schiena nuda coperta di tatuaggi floreali. Siede per terra, si muove come una pantera, strappa il pugnale dalle mani di Josè e lo sostituisce con un fiore rosso. Micaela ha l’abitino corto azzurro bordato di pizzo, si siede non direttamente a terra ma sopra un fazzoletto bianco, un crocifisso dondola sul petto e la borsetta è sempre stretta in grembo. La accompagna un corteo di figure nere velate che recano in mano un bacile oppure fiaccole (il richiamo all’arcaicità della figura materna o a un qualche rito iniziatico): funziona nella prima apparizione, non altrettanto nella reiterazione. Il senso della purificazione è nel duetto Josè-Micaela, lei gli lava le mani con uno straccio candido, poi lui ripete l’operazione da solo. Il torero è seguito da fans armati di cellulare intenti a fotografarlo e videoriprenderlo; Escamillo galante accende la sigaretta alle signore, Carmen rifiuta e vistosamente utilizza il proprio accendino. Carmen è innamorata per la prima volta e il tentennamento di Josè, le sue continue indecisioni la sconvolgono, la stravolgono: lei per la prima volta si è dichiarata disposta a rinunciare a tutto per amore e, per quella volta, comprende che mai e poi mai avrebbe dovuto cedere. Ma è troppo tardi, l’amore non corrisposto si trasforma in rabbia e disprezzo.
Non mancano momenti ironici e divertenti, il bacio in bocca dei due poliziotti che pensano di baciare Carmen, il finale del secondo atto con Zuniga spogliato dagli zingari e lasciato in mutande incatenato a una transenna, bersaglio delle pistole ad acqua dei bambini rom, poi liberato dai sottoposti e, inviperito, accompagnato in caserma sotto una coperta di feltro.
Molti sono i momenti di grande poesia, soprattutto gli inizi di ogni atto, in particolare del terzo: le luci cercano qualcuno, individuano l’amico di Carmen (spesso ubriaco, mentalmente debole) addormentato a terra, due poliziotti cercano di portarlo via e lui sguscia via in movimenti di morbide onde e in passi di angelica leggerezza.
Ci ha pienamente convinto il quarto atto, riscritto nella drammaturgia. Carmen sfida Josè come in una corrida, muovendo lo scialle per invitarlo a farsi sotto e così colpirlo con il coltello che le ha passato Mercédès dicendole di stare attenta. Ma Josè è militare di carriera, è lui ad avere la meglio, è lui a pugnalare Carmen davanti ai poliziotti immobili, è lui che abbandona Carmen a terra fra le braccia dell’amico barbone. Micaela assiste alla scena, toglie il pugnale dalle mani insanguinate di Josè e lo mette tra le mani sporche ma immacolate del barbone, trascinando via Josè che resterà impunito. Josè che innocente non è, mentre un innocente verrà accusato dell’omicidio.
Durante lo spettacolo la platea è percorsa da fili con annodate strisce di stoffa rosse, stracci come in molti luoghi sacri orientali o indiani. All’inizio del quarto atto le strisce vengono raccolte sopra il palcoscenico a suggerire la festa della corrida. Nel finale i brandelli di stoffa, ormai ammucchiati contro il muro di mattoni, paiono chiazze di sangue e i fili contro il cielo buio sono quel che resta nella vita dopo che l’amore è passato: un inutile intreccio nel vuoto.
Dominique Trottein attacca l’overture in modo rapidissimo ma poi affronta tutto il resto con molti allargamenti e quei tempi lenti (a momenti troppo, come nel momento delle carte) ci sono parsi perfetti. Il direttore ha a disposizione un’orchestra in stato di grazia con archi morbidissimi che indagano gli abissi della partitura creando un’attesa di morte, inevitabile dopo la perdita dell’amore e il tradimento.
È stata scelta l’edizione completamente cantata, anche se forse questa regia sarebbe stata maggiormente esaltata dall’edizione originale coi dialoghi parlati che conferiscono una più spiccata teatralità.
Veronica Simeoni debutta nel ruolo del titolo in modo convincente; limita le salite all’acuto e indugia invece nel grave, dominato nei toni e indagato in tutte le sfumature; una grande prova anche dal punto di vista attoriale: la sua Carmen usa le bottiglie di birra come nacchere e non poteva caratterizzarsi se non coi pantaloni, un look coraggiosamente perfetto. Roberto Aronica conferisce intensità a Don Josè, toccando tutte le corde e concentrandosi nell’indecisione e nel rapimento amoroso; la voce potente è sempre sorvegliata con intelligenza; splendida l’aria del fiore, se non fosse che Carmen è incatenata e i due sono separati dalla transenna che impedisce ogni contatto, fisico e spirituale: l’amore è mera illusione; in questa edizione Josè finisce da innocente, scappando con una furba e spregiudicata Micaela. Dell’Escamillo di Gezim Myshketa si è apprezzato il colore scuro della voce e il contegno distaccato che rende la dichiarazione d’amore del quarto atto assai incisiva. Meno ha convinto la Micaela di Alessandra Marianelli, piuttosto impacciata nella recitazione e con il registro acuto non sempre a fuoco e della giusta lunghezza.
Adeguati nei ruoli di contorno Pervin Chakar (Frasquita), Gabriella Sborgi (Mercédès), Cristiano Palli (Le Dancaire), Stefano Ferrari (Le Remendado), Pietro Toscano (Zuniga) e Daniele Piscopo (Moralès). Con loro il coro lirico marchigiano preparato da David Crescenzi, il complesso di palcoscenico banda Salvadei e il coro di voci bianche.
Fondamentale per la riuscita dello spettacolo l’Ensemble di teatro fisico Balletto Civile che ha eseguito le coreografie di Michela Lucenti e ha caratterizzato tutte le scene con grande poesia e immediatezza, costituendo spesso la chiave di volta della regia. In particolare l’amico di Carmen, filo conduttore fra gli atti, il barbone che prova una prima volta a proteggerla da Josè ma lei lo blocca con un chiaro movimento delle mani (“stai lontano, ci penso io”) e che resta, iconicamente illuminato dall’alto, il protagonista del finale: un quadrato di luce bianca che isola una pietà laica, Carmen morta abbandonata fra le braccia di lui, l’innocente. Ma, alla resa dei conti, non sono innocenti anche Carmen e Josè? L’amore può essere una colpa?
Teatro esaurito, molti applausi a scena aperta e nel finale un trionfo per i protagonisti; qualche contestazione, secondo noi immeritata, per la regia.