In occasione delle recite per Expo 2015, la Scala riprende il dittico curato da Mario Martone nel 2011 e allora proposto rovesciato mentre oggi, in senso cronologico, Cavalleria rusticana precede Pagliacci. Resta intatto, dopo quattro anni, l'impatto emotivo di due spettacoli completamente diversi uno dall'altro, con scene di Sergio Tramonti, costumi di Ursula Patzak e luci di Pasquale Mari.
Cavalleria rusticana è immersa in un nero essenziale assai significativo, opprimente e totalizzante, che inghiotte tutto e tutti, come la gelosia e la solitudine (quando si ama senza corrispondenza, o, ancor peggio, senza più corrispondenza). Martone sottolinea la coralità dell'atto unico senza necessariamente scadere nella meridionalità scontata, anzi esaltando la forza universale dei sentimenti. Durante la sinfonia un bordello attraversa lentamente il palco, come un iceberg nel mare; ne esce Alfio, che poi va dal barbiere: l'ipocrisia di una società maschilista. L'ipocrisia che è alla base delle scelte registiche in tutta l'opera: efficacissimi gli sguardi obliqui e imbarazzati di Lucia quando vede Santuzza; significative le spalle dei coristi che partecipano alla messa, le teste voltate all'unisono e di scatto al sentire che Santuzza è scomunicata, la presenza ossessiva e opprimente dei paesani indiscret. La scena è fatta solo di sedie, ogni persona ne reca una, ciascuno ha il suo posto predeterminato e immutabile: tutto è giocato negli atteggiamenti e nelle posizioni. I coristi dispongono all'inizio le sedie ordinatamente, come in chiesa: una luce crepuscolare cade dall'alto e di taglio. Lo spazio è al tempo stesso interno (chiesa, con crocifisso calato dall'alto contro in fondo) ed esterno (piazza). Un'unica sedia rimane rivolta verso il pubblico, la sedia di Santuzza, la donna che non accetta passivamente il destino, che si oppone all'ipocrisia del paese.
Il sacrificio, anzitutto: viene sgozzato un agnello in proscenio. Si celebra la messa e il rituale è puntualmente seguito: il corteo di preti e chierichetti con turiboli e messale, candele e crocifisso, l'elevazione, le braccia aperte per il Padrenostro, la comunione. Nel finale le sedie vengono poste in posizione circolare, quasi antico odeon: uomini e donne si aggirano come falene dentro una lampada. Il nero lambisce tutti, tutti vestiti di nero, grigio e marrone; solo Lola è in rosso, ma spento, scuro, di sangue rappreso. Efficace il suo ingresso dalla barcaccia, quell'indugiare sul parapetto per sistemarsi le scarpe. Il finale ricorda “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo: a scena vuota l'urlo da fuori “hanno ammazzato compare Turiddu” e tutti irrompono in scena dal fondo e dal buio, ormai inutilmente. Ogni protagonista ha avuto una possibilità di cambiare ma nessuno lo ha fatto.
Violeta Urmana sostituisce Elina Garancha ed è una Santuzza di grande spessore artistico e assai disinvolta in scena: durante l'intermezzo si aggira, con ieratica lentezza, tra i coristi seduti; la voce è potente ed estesa e usata con molta precisione al fine di comunicare ogni sentimento della protagonista, addolorata ma forte. Oksana Volkova è una Lola subdola, che cerca soddisfazione incurante di causare altrui sofferenze; la voce è precisa e caratterizzata da certi riverberi metallici a volte riscontrabili nelle cantanti dell'Est. Stefano La Colla porta a casa, dopo il recente Calaf in Turandot, un altro successo personale: un Turiddu dalla voce potente ed espressiva. Marco Vratogna è un Alfio dalla voce scurissima e sostenuta con qualche fatica. Meno incisiva vocalmente la Lucia di Mara Zampieri ma curata dal punto di vista attoriale.
Pagliacci è ambientata sotto un cavalcavia di periferia: prostitute appoggiate ai piloni di cemento coi resti di affissioni a brandelli, rami rinsecchiti, a terra chiazze d'erba, rimasugli di una natura sbiadita e schiacciata dall'antropizzazione. Una berlina coi fari accesi passa sullo sfondo, una roulotte non nuova e non pulita è piazzata in primo piano; all'interno dello sportello tanti adesivi delle tante città di un vagabondare non sempre scelto volontariamente: il paesaggio di una umanità desertificata, inaridita. Tonio si aggira straniato, come un animale braccato e in cerca di preda, al tempo stesso. Poi si avvicina al proscenio e il sipario si chiude per l'aria del prologo, in cui egli si rivolge al pubblico, che diventa necessariamente partecipe, in quanto i protagonisti entrano ed escono dalla platea (utilizzando le due ali che sovrastano ai lati il golfo mistico, come Martone già fece nella Trilogia mozartiana del San Carlo). Poi si riapre il sipario. Nedda è dentro la roulotte, lo sguardo perso nel nulla: desidera un altrove, desidera un amore di slanci affettuosi e tenerezza, un sostegno sentimentale che contrasta con l'amore mercenario che si offre a pochi metri. Entrano due vecchi furgoni, un Fiat verde e un Ford marroncino, carichi di giocolieri e saltimbanchi. Il coro, borghesi eleganti e distaccati, è in alto, sopra il cavalcavia: sotto c'è una umanità da guardare da una distanza.
Martone è bravissimo a disegnare in modo evidente e convincente le dinamiche tra i personaggi, la brama di Tonio, la arroganza di Canio, le paure di Nedda, la dolcezza di Silvio, l'innocenza di Peppe. Personaggi sovrastati da un cielo anonimo, sgranato, piatto: senza uscita. Prima grigio, come il cemento e lo smog, come le periferie: della città e del cuore. Un cielo che si tinge pian piano di rosa, poi rosso, infine azzurro. Nedda è infelice, desidera un altrove. Un altrove che non è certamente Canio, sbruffone che deve far vedere a tutti il potere sulla sua donna (metafora di qualsiasi sopraffazione sui deboli). Nedda, commovente con gli abiti di un passato splendore (o di un altrui splendore) e l'ombretto di lustrini. Nedda che ama Silvio perchè è tenero, gentile, è uno degli “altri” ma è uno “fuori dal coro”. Storie di degrado urbano, storie di periferia dell'amore.
Fiorenza Cedolins è una Nedda commovente e vocalmente importante, dal fraseggio curatissimo per rendere ogni diversa caratterizzazione del ruolo: arrabbiata con Tonio, dolce e innamorata con Silvio, combattiva e stanca con Canio. Marco Berti è un Canio non giovane, anche lui perfettamente identificato con il personaggio che la regia vuole, al quale riesce ad adattare la voce nel miglior modo possibile, una voce di straordinaria qualità e intensità. Marco Vratogna è un Tonio non scemo o intellettualmente deficitario, ma un escluso (in un contesto di esclusi), vocalmente giusto e scurissimo. Juan José de Leòn è un Peppe preciso e tenero. Bravissimo Simone Piazzola, un Silvio morbido e gentile, con la voce importante nei registri tutti a fuoco. Con loro i contadini (qui borghesi) Bruno Gaudenzi e Michele Mauro. Da citare, per la fondamentale importanza nell'economia dello spettacolo, gli ottimi acrobati: Hannah Carolina Braus, Joris Frigerio, Raphael Perrenoud, Matthieu Renevret, Viola Valsecchi. Coro ben preparato da Bruno Casoni e attorialmente stupefacente.
Carlo Rizzi dirige entrambe le partiture con rispetto dei tempi e un volume importante che a tratti diventa quasi eccessivo; soprattutto in Cavalleria è parso che l'appiombo non sempre sia stato ottenuto ma non ha compromesso il risultato dei due buoni cast.