Lirica
CENERENTOLA

Elvis Presley e Cenerentola

Elvis Presley e Cenerentola

Capita talvolta che, dopo un bel corso d’anni passati sulle tavole del palcoscenico, un cantante decida di imprimere una qualche svolta alla sua carriera. Senza scomodare chi si prende un posto di direttore artistico - vedi Cecilia Bartoli in quel di Salisburgo – pensate a quelli che decidono di passare dall’altra parte del palcoscenico, salendo cioè sul podio dell’orchestra: come ad esempio fece Claudio Desderi, promuovendo così la carriera di non pochi giovani artisti; oppure come Placido Domingo, che debuttò con la bacchetta in mano all’Opera di Washington nel lontano 1988 (con “Goya” di Menotti, se la memoria non mi tradisce). Oppure pensate a quanti si dedicano alla regia, ambito nel quale si è cimentato negli ultimi decenni un non piccolo manipolo di personaggi. Ricordo bene ad esempio nel dicembre del 2004 – c’ero anch’io - il debutto quale regista di Luciano Pavarotti, impegnato a costruire intorno a fresche personalità una sua “Bohéme”al Teatro della Fortuna di Fano. Avventura affrontata con grande slancio anche se la malattia segnava già il suo fisico e ne minava le forze - e non a caso era coadiuvato sul campo da Beppe De Tomasi - e che quindi non ebbe poi seguito. Caso invero singolare invece quello di Josè Cura, vero talento poliedrico: direttore prima che cantante, poi cantante vero e proprio – e che tenore! – poi di nuovo direttore – e buon direttore! - per poi decidere alla fine di accostarsi anche alla regia ed alla scenografia. Così coinvolto in questi nuovi interessi al punto di varare nel 2012 un’impresa dai tratti faraonici, quella cioè di montare all’Opéra de Lorraine in Nancy “La rondine” pucciniana seguendone sia il lato visivo (scene e regia), sia quello musicale (concertazione e direzione). Chapeau, veramente.

Un tantino più modestamente, misurando bene i propri mezzi, anche Lorenzo Regazzo ha deciso di porre a frutto la sua ventennale esperienza sulle scene, ma soprattutto il suo spiccato estro teatrale e l’incontestabile attitudine attoriale, per debuttare ufficialmente in campo registico. E l’ha fatto in un ambito a lui congeniale e frequentemente percorso – vale a dire l’opera di Rossini – portando in scena nell’ambito di una coproduzione del Comunale di Treviso e del Comunale di Ferrara una sua “Cenerentola”, attualizzata e calata in una atmosfera che potremmo definire “pop-rock”: quindi coloratissima nell’aspetto, e travolgente nel ritmo narrativo. Si parte dalla cadente magione di Don Magnifico, con una sagoma di Elvis Presley a troneggiare in mezzo: Angiolina ci viene presentata in grembiule rosa da domestica, mentre stira montagne di panni; Clorina e Tisbe sono due annoiate ragazze che sfogliano la rivista Playgirl gustando i bei ragazzotti seminudi del paginone centrale; Don Magnifico fa il suo ingresso in canottiera, ciuffone e lunghe basette, ma poi si abbiglia per la festa con una camicia gialla e pantaloni rossi a zampa d’elefante, sguaiato e cafone nei gesti. E quando Alidoro fa il suo primo ingresso in scena, porta al braccio due grandi borsoni da riempire: non è un mendicante, bensì un volenteroso giovanotto che va raccogliendo cibi e vestiti per una onlus di carità. In definitiva, i costumi volutamente esagerati di Gaia Buzzi – autrice anche delle funzionali scenografie – seducono molto l’occhio nella spinta caratterizzazione e nel ricco cromatismo, con un unico punto debole. Dai figurini sembrerebbero pensati per longilinei interpreti, mentre sulla scena la statura effettiva è in media alquanto bassetta: così, messi indosso a qualcuno di essi – come nel caso di Angiolina e di Ramiro – calzano maluccio, decisamente fuori taglia.
Ma quello che più conta, ad ogni modo, è il fluido e piacevole ritmo impresso dalla regia di Regazzo, di tanto in tanto in scena con un ‘cameo’ inedito, quello di un onnipresente  e sussiegoso maggiordomo che reca su un cuscino di velluto una scarpina di cristallo che nessuno vuole (anche perché il medium del riconoscimento, qui, è uno ‘smaniglio’, cioè un braccialetto), una treccia di salamini, una coroncina regale. Regia che rivela perfetta padronanza dei meccanismi scenici e musicali del teatro rossiniano, sì che lo spettacolo meraviglia e diverte come un gioco di prestigio ben riuscito, con gradevili gags inserite qua e là senza mai strafare né cadere in fastidiose cadute di gusto. E pure le virtuosistiche luci di Roberto Gritti contribuiscono ad assecondare, con il loro gioco cromatico sempre cangiante, questa lettura vivace e bizzarra dei due vorticosi atti del ‘melodramma giocoso’ della coppia Sterbini/Rossini.

Quanto agli interpreti vocali di questa coproduzione veneto-emiliana, qualcuno ancor giovane, spiccava tra tutti il mezzosoprano palermitano Chiara Amarù. Timbro ambrato e liquido al tempo stesso, fraseggio morbido e persuasivo, tecnica di coloratura adeguata, felice adesione sentimentale: il personaggio di Angiolina ci viene da lei consegnato già dalla delicata nenia di «Una volta c’era un re» con buona espressività, tenero e commovente; seguita bene nel duetto con Ramiro, e risalta a dovere anche nel momento cruciale del rondò finale «Non più mesta». Umberto Chiummo è un Don Magnifico vocalmente ben caratterizzato, anche se un po’ vecchio stile (leggi Montarsolo e compagni); e comunque variato nelle tinte, nel fraseggio, nel sillabato. Un po’ meno nelle inflessioni e nelle sfumature interpretative: l’entrata in scena «Miei rampolli femminini» scorre via senza rendere completamente l’ineffabile ed istrionico personaggio, mentre più conveniente appare l’assolvimento del nuovo compito di Capo Cantiniere, con lo scandito «Intendente! Direttor!» reso dal basso-baritono abruzzese con felici pennellate. Clemente Dailotti è stato un Dandini di considerevole qualità, simpatico ed accattivante, tratteggiato in scena con scaltra irruenza sin dal trionfale ingresso in scena; e, come ben si sa, «Come un’ape nei giorni d’aprile» è una carta sicura in mano ad ogni buon interprete, se spesa a dovere. Prosegue poi bene nei difficili confronti con le due aspiranti ai fiori d’arancio, e sopra tutto tiene banco in «Un segreto d’importanza…/Senza battere le ciglia…», vale a dire nello spumeggiante duetto con l’aspirante suocero. Senz’altro adeguato al compito il volitivo e nobile Alidoro di Fabrizio Beggi, ben disimpegnatosi nell’aria «Il mondo è un gran teatro». Le due sorellastre erano rese in scena da Caterina di Tonno (Clorinda) e da Elisa Barbero (Tisbe): femmine nevrotiche, spropositate, insopportabili; ma nel contempo piacevolmente spassose. Nota assai spinosa invece il Ramiro di Lu Yuan, tenore che dalla natia Cina è venuto a formarsi nel Bel Paese. Qui, a mio parere, siamo al lumicino prima ancora di cominciare una carriera vera e propria: voce filiforme dal timbro querulo, tecnica ancora incerta, dizione deplorevole, non eccelsa personalità. Bisogna lavorare ancora, tanto e tanto, e forse chissà, vedremo. Ma se manca il materiale di base…

Altra delusione, la guida musicale di Sergio Alapont, che pure aveva diretto con buoni esiti l’anno scorso su queste stesse tavole del Comunale trevigiano “Il barbiere di Siviglia”. Sinfonia un po’ sbalestrata, atmosfera monocorde, senza brio ed ironia, concertati portati avanti sbrigativamente; e su tutto una certa generale indeterminatezza che sminuiva la bella costruzione rossiniana. Né l’orchestra messagli a disposizione - la Città di Ferrara - mi pareva immune da incertezze ed imprecisioni. Meglio già mi pare andasse con gli interventi del Coro Voxonus diretto da Alessandro Toffolo, sempre calibrati.

Visto il
al Comunale Mario del Monaco di Treviso (TV)