Danza
COMPAGNIA ASTRA ROMA BALLET – “VOCE DI DONNA”

Una voce di donna un po' timida.

Una voce di donna un po' timida.

La Compagnia Astra Roma Ballet, creata nel 1985 da Diana Ferrara, Prima Ballerina Etoile del Teatro   dell’Opera di Roma, ha presentato a Invito alla danza un doppio programma dal titolo Voce di Donna, con due distinte coreografie che affrontano entrambe l’universo femminile.

Turris Eburnea di Enrico Morelli vuole rievocare personaggi femminili del sud (...) [esaltando] i chiaroscuri violentemente seducenti di donne sempre sulla difensiva, dilaniate da una vita vissuta mai in prima persona come scrive il coreografo nel programma di sala. Una  coreografia, prosegue Morelli,  dedicata alle donne della mia terra, le madri della mia terra tradendo un involontario sessismo che vede le donne ancorate alla funzione procreatrice di madre.

Sulla scena le danzatrici messe, letteralmente, su un piedistallo sono manovrate dai danzatori, che sembrano comandarle in tutti i passi di danza in un evidente desiderio di denuncia. I danzatori conducono e concupiscono le danzatrici imponendo loro un ordine compositivo al quale le ballerine  reagiscono con una ricettività che mentre si sussume nell'obbedienza, rimanda  a un oltre nel quale sono auto determinate grazie a una dinamica ben sviluppata coreuticamente nello scarto tra i passi a due dove, tradizionalmente, l'uomo conduce, e gli ensamble,  dove le donne applicano una resistenza passiva e si sentono libere di esprimersi nella danza negli ensemble dove ballano da sole, senza la presenza delle controparti maschili.

Anche la disparità numerica, quattro danzatrici per tre danzatori, impone una asimmetria compositiva che ribadisce, almeno nella danza, l'irriducibilità residuale del femminile al maschile.

Nella seconda parte della coreografia, però, quando i danzatori  ballano a torso nudo, la coreografia subisce uno slittamento tematico.

L'erotizzazione del corpo maschile nata, crediamo, dall'intenzione di affermare il desiderio femminile, finisce per scalzare le donne dalla coreografia che si incentra sul corpo maschile che più che affermazione di un desiderio di una soggettività altra, si attesta come valore a sé, capovolgendo il senso di omaggio al mondo femminile della coreografia, finendo per essere messo come tra parentesi.

Dopo una pausa per permettere di allestire la scena è la volta di Joni Songs di Milena Zullo presentata in prima assoluta che si attesta come un omaggio alle musiche e ai testi di Joni Mitchell.

La coreografia presenta un regesto di nove brani della cantautrice statunitense i cui testi sono riportati in un libretto aggiuntivo al programma di sala in versione originale e in traduzione italiana. Nove brani eseguiti in successione, ognuno chiuso in un suo proprio universo coreutico  (due de quali accorpati nella stessa coreografia), sottolineato dai cambi di costume a vista (fatti dietro un doppio filo di panni stesi), che invece di diventare parte integrante della coreografia ne segnano una cesura sempre più meccanica e ripetitiva, di brano in brano, di cambio in cambio.

La ricerca coreutica di Zulli è notevole, la coreografa lavora molto sugli ensemble con soluzioni dinamiche dalla cifra stilistica originale ai quali manca però il sostegno di un discorso coreutico che prenda le intuizioni dei singoli passi  e le sviluppi in un percorso coerente rimanendo poco più che dei grumi, delle sillabe, delle singole parole senza assumere mai davvero il lungo respiro della frase.

La coreografia appare troppo concentrata a restituire il contenuto delle canzoni con un riscontro visivo immediato (fino a scadere nell'ovvietà del girotondo fatto fare a tutto il corpo di ballo nell'esordio di The Circle Game quando danzatori e danzatrici si calano nei panni di una infanzia affettata e stereotipata) invece di tradurre in danza le emozioni che scaturiscono dai testi di Mitchell,  che non sono mai narrativi ma evocativi come una poesia (quello di The Circle Game per esempio alludendo più che all'aspetto ludico dell'infanzia, come sembra suggerire la coreografia, alla voglia di crescere che ci fa perdere la grandiosità delle aspirazioni) più attente alla letteralità del testo che alle sue metafore.

Per nessuna delle otto coreografie Zulli sembra volere correre il rischio di esplorare le potenzialità delle sue stesse intuizioni coreutiche che avrebbero meritato un impianto sperimentale e, magari, anche iperbolico, al quale la coreografa rinuncia per un senso della misura col quale sceglie anche i brani di Mitchell.

Molti infatti, ma non tutti, sono presentati non nella versione originale ma in una rilettura fatta da Mitchell nel 2002 nel disco antologico Travelogue  - nel quale rivista alcuni dei suoi successi con degli arrangiamenti per grande orchestra, dai tempi dilatati e musicalmente alquanto piatti - rinunciando così al cromatismo dei brani originali che avrebbe saputo sostenere ritmicamente le coreografie con maggiore convinzione.

Joni Songs rimane un omaggio ingessato che non raggiunge davvero mai il punto di fusione attestandosi su una produzione troppo controllata e tenuta in misura.

Un omaggio al mondo femminile fatto in punta di piedi e con una timidezza alla quale probabilmente avrebbe giovato una esecuzione più energica che avrebbe sostenuto con l'urgenza della necessità la volontà di ascoltare una voce che nel mondo reale viene troppos pesso messa a tacere.

Visto il 25-07-2013
al Vascello di Roma (RM)