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CORSIA DEGLI INCURABILI

Corsia degli incurabili:un urlo di ribellione

Corsia degli incurabili:un urlo di ribellione

Il debutto di “Corsia degli incurabili” risale al 2010, il testo è un atto unico scritto in versi da Patrizia Valduga, una delle voci più significative e originali della poesia contemporanea italiana.  Porta in scena questo testo poetico il regista Valter Malosti, da sempre attento alle riscritture poetiche in scena, al verso, a una “traduzione” fisica e carnale, vocale e sonora della parola scritta. Unica interprete della pièce, che dà corpo e voce al personaggio, è Federica Fracassi, già finalista ai Premio Ubu come attrice protagonista nel 2010,  proprio grazie a questa sua superba interpretazione.

Corsia degli incurabili è uno dei testi più intensi e drammatici della poesia italiana contemporanea,  composto nel 1996 come un atto unico in versi da Patrizia Valduga – compagna per ventitré anni del celebre poeta e critico teatrale Giovanni Raboni.
In questo testo teatral-poetico la protagonista è una donna malata terminale, fisicamente e per certi versi mentalmente imprigionata nella sua malattia – è immobile su una sedia a rotelle, che riflette, pensa, si indigna, si infuria, critica, sorride, ragiona, esprime sé stessa e tutto ciò che accade in lei attraverso la sua sola voce, dà corpo al dolore che la dilania e la distrugge lentamente, alla rabbia e alla disperazione che la consuma. Si confronta con un mondo fermo, indifferente e inospitale, la sua mente è ancora affollata da facce e persone che hanno fatto parte della sua vita: la sua condizione di malata la porta ad avere una percezione del mondo, della vita e di sé stessa bloccata e da questa sua condizione valuta, misura sé stessa e si relaziona con il suo contesto sociale, con il paese in cui vive, si trova a fare i conti con la condizione di intima sofferenza in cui si trova a “dover” vivere.
I versi della Valduga sono forti e vibranti, reclamano una vitalità soppressa che l’uomo avverte in contemporanea alla condizione di dolore in cui è condannato a vivere, esprimono la forte conflittualità insita nell’esistenza umana.

La scena è scarna, essenziale, minimale: un paio di scarpe rosse, una sedia a rotelle e su questa, in penombra, seduta troviamo già in scena Federica Fracassi, assente e immobilizzata, con lo sguardo perso nel vuoto. Il pubblico viene avvolto fin da subito da un’atmosfera polverosa, a tratti inquietante, il tempo sembra sospeso, una sensazione di staticità si insinua come una sorta di residuo di umanità perduta.

Federica Fracassi, prigioniera di un corpo immoto, appare diafana e disfatta, combatte sino alla fine con forza e disperazione contro un paese spregevole e qualunquista, contro l’ipocrisia di un sistema dichiaratamente corrotto e marcio, contro il disinteresse e l’apatia dell’umanità, la vacuità dell’esistenza e la sua mancanza di etica e di valori, ma sopra ogni cosa contro lo scempio della parola.
La straordinaria performance della Fracassi non si esaurisce nell’uso sapiente e tecnicamente impeccabile della voce, infatti sebbene tutto appaia fermo, in realtà tutto è in costante movimento. Il dinamismo interno è palpabile e vivo. Il corpo dell’attrice è in tensione e vibra, internamente la sua forza ed energia si muove in costante disequilibrio, il suo magnetismo viene percepito dallo spettatore che rimane rapito da questa performance attoriale di forte impatto emotivo. La Fracassi è una donna inerme, malata terminale che si ricongiunge al suo ineluttabile destino, attraverso un percorso segnato da dolore, ira, indignazione, desiderio, volontà.

La drammaturgia testuale si muove in perfetta sintonia con il disegno luci: preghiere, grida, bisbigli, moniti, urla, derisioni si susseguono - talvolta con ritmo incalzante talvolta intramezzati da respiri e pause - in simbiosi armonica con poliedrici giochi di luce.  Tagli netti, crudi, si alternano a luce diffusa e oscurità improvvisa, e si fondono a effetti acustici nervosi e stridenti “generando pulsioni di gravitazione elettrica”; questo connubio evidenzia con eleganza e sapiena i dettagli e la ferocia di un testo tanto poetico quanto drammatico.  Il tutto accompagnato magistralmente da una colonna sonora illuminata e calzante, che si muove sulle note di Beethoven e Wagner, per esplodere con fervore con Fausto Romitelli e Giovanni Lindo Ferretti, sino a placarsi con la romanza toccante “L’alba separa dalla luce l’ombra” di Francesco Paolo Tosti.
Federica Fracassi si conferma una interprete sensibile e attenta, e la regia di Malosti è totalmente al servizio della poesia, valorizzandola e riuscendo a darle il giusto respiro e ed equilibrio, traducendo scenicamente un testo forte e pulsante come quello della Valduga, cogliendone l’anima straziata e palpitante.

La protagonista dell’atto unico della Valduga è una ribella e dissente, è una voce che urla, sussurra e canta, è un’anima che compie un percorso verso una morte inevitabile e annunciata, e che con essa si confronta, costantemente, sotto ogni sua forma: il conformismo, la cattiva informazione, la smania di successo, la deturpazione e lo scempio del linguaggio, l’invidia, l’infamia, l’arroganza di chi è sano e sta bene e guarda con finta compassione chi sta male e lo va a trovare solo per essere a posto con la propria coscienza, per sentirsi una “brava persona”. Interessante come un’anima così prossima alla morte possieda una tale forza, una tale vitalità, una tale voglia di cambiare lo stato delle cose.

Poetico, denso, travolgente, il monologo si sviluppa attraverso tutto il testo alternando registri linguistici diversi - il linguaggio aulico e le invettive critiche di forte attualità – e si articola  attraverso una fitta rete di connessioni, che spesso risultano complesse al primo ascolto, quasi scoordinate e confuse, ma che in realtà delineano momenti di vita, impressioni, ricordi intimi e privati, sensazioni ed opinioni che, nel loro essere personali e radicate, diventano una metafora del profondo senso di disagio, di smarrimento e di dolore in cui noi stessi viviamo e in cui si trova il nostro paese: la voce che si alza e mostra tutta la sua indignazione con forza ed energia contrasta con la scena fissa e immobile in cui si trova, con il corpo quasi morto da cui proviene. Le parole si susseguono a ritmi differenti, a tratti sembrano quasi vomitate, buttate fuori con violenza,  a tratti sono bisbigliate, sussurrate a mezza voce, come a seguire un flusso interno di emozioni che agitano l’anima della protagonista e ne determinano stati ed effetti.

“Corsia degli incurabili” è un non luogo, è uno stato mentale di riflessione profonda e critica della protagonista, che si muove abilmente da uno stato quasi surreale e trasognante del ricordo di un amore romantico ad un’aspra critica sociale, un invettiva nei confronti del governo, dei media di informazione, del nostro senso critico spesso appannato. È un lavoro onesto, diretto, che scuote e fa pensare: si esce con qualche certezza in meno e qualche punto interrogativo in più.
 

Visto il 14-12-2014