Lirica
COSì FAN TUTTE

“Così fan tutte”, il dramma giocoso del disincanto. Visto da due Muti

Così fan tutte
Così fan tutte © Silvia Lelli

Così fan tutte all'insegna di tre “M”: Muti padre, Muti figlia e... Mozart, naturalmente. Nato sulle assi del San Carlo di Napoli a fine 2018 (e poi transitato alla Wiener Staatsoper), il capolavoro mozartiano vedeva in quella occasione Riccardo Muti tornare a dirigervi dopo tre decenni di assenza.

Ed ora invece segna l'approdo ad un lido mai prima toccato, il Teatro Regio di Torino, con un bellissimo spettacolo che, unitamente alla recente Bohéme con Oren, segna l'auspicata rinascenza della Fondazione torinese dopo tante sgradevoli traversie. E che, ampiamente pubblicizzato sui media, è stato registrato un mese fa, ma solo ora offerto in streaming on demand sul suo sito istituzionale.

Mozart e Muti, un connubio ideale

Che il connubio fra Mozart e Riccardo Muti sia perfetto, è fuor di discussione sin dalle prime apparizioni salisburghesi degli anni '80. Per una istintiva affinità, certo; ma anche perché il primo viene correttamente collocato nell'alveo dell'opera buffa italiana, che sul tramontare del '700 viveva il suo apogeo: è questa la fonte da cui il Salisburghese attinge, rielaborandone schemi e contenuti, mantenendone però intatto lo spirito. Che Böhm, Klemperer e Karajan lo vogliano o no. 

Muti sale per la prima volta sul podio dell'orchestra torinese, per lui nuova, ma che lo asseconda convinta; e da essa ottiene l'ovvia rigorosità ma anche profondità di respiro, una corposità morbida e suadente, preziosi particolari timbrici e quelle sonorità fluide, sfumate, perlacee, ma non evanescenti che sono la sua sigla mozartiana: vedi l'etereo, ultraterreno soffio di “Soave sia il vento”. Anche qui la cura estrema del dettaglio possiede sempre una sua logica interiore, le spinte drammaturgiche sono incalzanti, ed attraversate da sottili vibrazioni; e la visione d'insieme si rivela intrisa, come al solito, da una teatralità possente che accompagna e sottolinea ogni parola, ogni frase, ogni gesto degli interpreti.

La perfetta simmetria di tre coppie d'interpreti

Tutti italiani, tutti chiaramente preparati e stimolati con adeguate prove, li vediamo esprimere ognuno il meglio di sé. Anche perché, dal canto suo, pure la regia sa come metterli a loro agio.

Spiccano la piena musicalità ed il talento naturale di Eleonora Buratto - una tenera Fiordiligi, nella quale riluce un timbro di rara seduzione - affinati da una tecnica a prova di bomba: vedi con quale nobile nonchalance risolve le ripide colorature di “Come scoglio”, e come sa sciogliere finemente il rondò“Per pietà, ben mio”. Una emissione un po' meno vigorosa, per una certa debolezza di proiezione del suono, è propria del mezzosoprano veneto Paola Gardina, che comunque riesce a raffigurare un'aggraziata Dorabella, infondendole carnosa sensualità e civettuola comunicativa. 

Tocca a Ferrando - e quindi a Giovanni Sala - una delle più trasognate arie mozartiane, “Un'aura amorosa”, che il giovane tenore lecchese dipana con vellutata morbidezza, timbro seducente ed elegante periodare; ma l'intera la sua performance ci è parsa degna di lode. Allo stesso buon livello si colloca quella di Alessandro Luongo, cui tocca dar corpo alla figura di Guglielmo, parte di maggior carattere rispetto al fatuo commilitone, da lui resa con slancio e spontanea espressività, sempre ben rifinita quanto a fraseggi e sfumature.

Ecco i due buffi, e la regia

Marco Filippo Romano, con tocco giocoso, garbato e leggero, senza mai cedere alla macchietta, cesella il suo Don Alfonso riportandolo a quella tradizione che gli è propria, quella gloriosa dei buffi all'italiana; o per meglio dire, alla napoletana. Qui c'è lo zampino di Muti, crediamo. Il giovanissimo mezzosoprano Francesca di Sauro si rivela una Despina strepitosa, spigliata e mordace, a suo agio anche nelle scene dei travestimenti. Una servetta tutto pepe e fuoco, degna discendete – cambia solo una lettera nel nome - della Vespina pergolesiana.

Il raffinato disegno registico di Chiara Muti è pulsante, nitido, seducente – molto à la Strehler, verrebbe da dire – mantenendosi in sottile equilibrio tra dolce ed amaro: lo vediamo scorrere lieve, fluido e senza inciampi, pur nel rilievo dato anche ai piccoli dettagli. Le ariose scenografie di Leila Fteita sono all'impronta di un aggraziato modernismo; i costumi di Alessandro Lai paiono invero deliziosi; a Vincent Longuemare dobbiamo un disegno luci esemplare.

Visto il 11-03-2021
al Regio di Torino (TO)