Un grigio fuori, ed un grigio dentro, accoglie l'interno familiare di The Country di Martin Crimp, in scena al Teatro Bellini con Laura Morante, Gigio Alberti e Stefania Ugomari Di Blas protagonisti: sono due tonalità di grigio che si sovrappongono perfettamente, quella che proviene dal paesaggio e dalla notte filtrata dall'enorme vetrata opaca, e l'altra, che ha scavato nell'animo di tutti loro un solco su cui è scivolato, in anni di glaciazione, un trionfo di ambiguità, sotterfugi e macerie di relazioni personali.
La famiglia è quella di una classe media occidentale, ed i peccati sono quelli con cui ci si ritrova mediamente a fare i conti oggi guardandosi semplicemente attorno: tradimenti, intolleranze ed assenza di speranza, che qui però sono letti dalla regia di Roberto Andò in una luce britannica che evoca fortemente immagini di Harold Pinter per ambientazioni e ritmo, del tutto priva di ironia ma sempre sospesa, come sospesa resta anche una parte violenta che potrebbe insinuarsi, di tanto in tanto, e che invece resta strozzata, facendo sempre prevalere l'aspetto minimale di coloro che intendono mantenere in piedi un assetto formale del rapporto.
L'occasione per far emergere l'iceberg è l'improvvisa decisione del marito, trovatosi evidentemente in una situazione difficile da gestire -con l'amante svenuta in una strada di campagna, ed affannato da una recente colpa per aver lasciato morire un paziente- di portarla “per una notte” a casa sua, fingendo un soccorso incidentale. La moglie però sospetta da subito che nasconda altro, e da ciò nasce l'istantanea atmosfera pesante e rituale dello scontro fra sospetti ed accuse, rimanendo sempre costantemente legati ad una cifra quasi esclusivamente verbosa e dall'espressione piatta che conferisce sospensione alla sostanza, e che viene gestita con toni che si innalzano e si abbassano, si avvicinano da complici e poi si allontanano da nemici e prigionieri, l'uno dell'altro e di sé stessi.
È comprensibile perciò che la scenografia lasci molto spazio a questa atmosfera, e si ritiri in una sua essenzialità: un prato finto riproduce sia la villa di campagna nella quale la famiglia si era rifugiata (forse) per cercare tranquillità, sia il muro spesso ricordato per le passeggiate dal vario significato, poi un tavolo sul quale lei taglia, taglia, sminuzza con lo stesso procedimento con cui parla per indagare sul marito, pungolandone i momenti di raro silenzio (“non fissare il vuoto”) e proponendo quella difficile quotidianità in cui si nascondono piccoli e grandi tormenti, in cui giunge anche di tanto in tanto l'eco di un quarto, mai presente personaggio, su cui si appoggiano le vicende per intrecciarsi con un alito di mistero più concreto.
Qualcosa rimane sospeso però, nel retrogusto lasciato dal testo: anche se in un contesto simile sarebbe naturale attendersi un certo impatto amaro, rimane la sensazione di una prova attoriale che ha convinto ben più di una scrittura che senza di loro e senza questa regia sarebbe risultata di ben minore interesse, per originalità e per strumenti drammaturgici e linguistici adoperati; ed invece i tre attori indovinano e magari nobilitano i caratteri: Richard (il marito, Gigio Alberti) è spezzato, confuso, agitato ma anche insinuante e cerebrale, Rebecca (l'amante, Stefania Ugomari Di Blas) aggredisce, ma avvolge anche con armi ingenue ed esperte e resta sempre ambigua, e Laura Morante, la moglie, con grande sensibilità dona al personaggio il carattere della donna-che-contiene, l'archetipo di colei che riesce a mantenere le redini della famiglia, le mani ampie in cui far confluire colpa e sofferenza: come racconta nel finale, in quello che potrebbe essere un sogno rivelatore anziché il fatto accaduto, è colei che scopre un sentiero lastricato di ardesia da cui non vorrebbe più tornare indietro, su cui non v'era nulla di umano, al termine del quale scopre che si può passare il resto della vita a fingere l'amore.
“Baciami.
Ti ho già baciato.
Allora, baciami di nuovo.”
Come prendere un biscottino col tè, ma amaro. E così riappaiono infatti, dopo un tempo imprecisato, al costo però di un prosieguo tanto apparentemente normalizzato, quanto interiormente ancora più grigio.