Con Crave (desiderio, smania) Sarah Kane scrive un complesso regesto intertestuale (da Beckett a Shakespeare, dalla Bibbia al buddismo, passando per elementi autobiografici) il cui interesse non risiede nel gioco interpretativo di riconoscimento delle fonti ma nel suo costituire un discorso nuovo che si impone per il suo valore poetico, il cui riferimento principale è La terra desolata di T. S. Eliot che la fa approdare a una vera e propria drammaturgia in versi.
Quattro personaggi, senza nome, indicati nel testo da una sola lettera, monologano intersecandosi e (a volte) sovrapponendosi in una dinamica affabulazione che vede una donna non più giovane, M (Mother, madre) chiedere a B (Boy, ragazzo) di fare un figlio con lei senza amore, mentre A (Abusator, stupratore) dichiara il suo amore violento per C (Child, bambina).
Questa cornice narrativa costituisce lo sfondo di senso dal quale il pubblico può ricercare un significato più intimo e personale, alle quattro voci monologanti che ribadiscono l'universalità di un sentimento amoroso visto in chiave disperante, distruttiva e pessimistica, di rinuncia e perdita dell'amato bene e della propria vita.
Un testo che trova il suo senso precipuamente nel suo essere in scena.
Fa benissimo dunque Pierpaolo Sepe nell'approntare una regia che declina il testo con una attanza performativa che gli si sovrappone in maniera decisa.
I personaggi si muovono in una struttura scenografica costituita da una grata di proscenio (sulla quale trovano spazio i microfoni che ne amplificano le voci) dietro la quale si distanziano quattro postazioni con una finestra ciascuna, sormontate da una luce al neon, dove i personaggi si attanagliano, si contorcono e corrono, urlando di disperazione.
I microfoni amplificano anche i rumori (quando la grata viene colpita) mentre le voci dei personaggi risultano appiattite dall'amplificazione che ne cancella le sfumature e rende i monologhi/dialoghi di difficile comprensione nelle singole parole ma non nelle loro intenzioni.
Alcuni momenti sono davvero indimenticabili come quando i personaggi si spogliano dei vestiti rimanendo nudi, per poi rivestirsi degli abiti degli altri personaggi, cadendo e rialzandosi di continuo, in un interminabile ritmo esistenziale eseguito con grande precisione atletica.
La messinscena però non trae davvero tutte le conseguenze dell'intuizione registica da cui nasce.
La performatività spinta degli attori e delle attrici non sembra scaturire dal testo, limitandosi a (ri)proporre dei topoi noti (la corsa, l'urlo, l'ammiccamento al pubblico, il travestimento dell'interprete/personaggio in panni non suoi) sovrapponendosi al testo senza riuscire a sostituirvisi o a contribuirne al senso, Regia e testo più che confrontarsi si scontrano annullandosi reciprocamente.
Sintomatico il lungo monologo di A, che rompe il ritmo della pièce fino a quel momento fatta di dialoghi brevi, che la messinscena copre con una musica quasi disco facendo compiere agli altri interpreti dei gesti erotici e ammiccanti che distraggono il pubblico dal monologo, già coperto dalla musica, come se Sepe non sapesse cosa fare di un testo che gli risulta improvvisamente ingombrante ed eccessivo.
Nell'insieme l'allestimento non si impone né per le perfomance (troppo altalenanti tra momenti più riusciti ad altri più affettati, compreso qualche birignao davvero insopportabile), né per la restituzione di un testo che viene ridotto quasi a pretesto una messinscena (sin dall'incipit che vede i quattro personaggi vagare sul palco per interminabili lunghissimi e vuoti minuti, prima di dire le loro prime battute) che dal testo non sa mai trarre una necessità o una urgenza.
Quella urgenza che aveva portato Sarah Kane a scrivere dell'amore e dell'odio per la vita e per l'amato bene - lei che si suiciderà qualche mese dopo aver licenziato Crave - della quale nell'allestimento di Sepe non c'è traccia...