All’interno della rassegna dedicata al 30° anniversario della Sala Assoli di Napoli, va in scena l’ultima regia di Pierpaolo Sepe: Crave di Sarah Kane. Nel luogo che, sin dal 1997, lo vide protagonista di un lavoro di ricerca sui nuovi linguaggi espressivi e sulla centralità dell’attore, Sepe porta in scena un’opera che si dibatte tra il déjà vu espressionista di una stantia sperimentazione da teatro off ed intuizioni interpretative di profondo valore artistico.
L’opera che l’autrice britannica scrisse un anno prima del proprio suicidio, avvenuto nel 1999 nell’ospedale psichiatrico dove era ricoverata per overdose da farmaci antidepressivi, porta con sé, cristallina ed irrevocabile, la certezza dell’inaccettabilità del compromesso della vita e sente irrevocabile la fine della stessa come unico atto legittimo. Un narrazione in cui non vi è posto per alcuna speranza e le cui parole, pur essendo contemporanee alla vita, ci urlano, vestite da identità dall’incompiuta e tormentata esistenza, da un aldilà ideale.
Di questo aldilà, fisico purgatorio che rinchiude la scena ed i personaggi tra un’alta rete metallica e quattro celle con le finestre chiuse da inferriate sul fondo, Pierpaolo Sepe offre una rappresentazione oltremodo stereotipata. I quattro soggetti, come bestie rabbiose ed urlanti, battono e ribattono tra le pareti dei propri cubicoli e la rete che letteralmente finisce sul pubblico. Intervallando lunghi e monotoni fraseggi, si denudano (ovviamente!) e si scambiano le vesti, al fine di rendere lapalissiana la complementarità tra i personaggi ed il vero ed unico soggetto narrante, coincidente con l’autrice stessa.
Ma a dimostrazione della suddetta autorialità, Sepe compone con sapienza una vera e propria scenografia sonora. Attingendo, per mezzo di sei microfoni ambientali, ai rumori generati sul palco (ad esempio dai passi degli attori) reimmette in platea, a valle di uno strutturato missaggio audio, un labirinto di suoni che poeticamente richiama il suddetto purgatorio, materializzando adamantine pareti al labirinto psichico della Kane. E sarà ancora il suono a segnare, con un piccolo squarcio di luce e speranza, il finale della pièce. Un requiem (Corpus Christi Carol composto da Benjamin Britten) interpretato dall’angelico falsetto di Jeff Buckley, che non a caso rimanda alla resurrezione di Cristo ed al mistero del Graal (sacra coppa dotata del potere di guarire ed allungare la vita).
Uno spettacolo tecnicamente accurato, puntuale nella ricerca compositiva che risente del peso di dettami di genere ed in cui si distinguono per capacità espressiva e maestria interpretativa i quattro interpreti: Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra e Morena Rastelli.