L'idea drammaturgica che c'è alla base dell'ultima fatica produttiva di NoirDesir Cuoremio su testo di Vania Mattioli, è scenicamente intrigante: rappresentare i fantasmi, le ossessioni, e dare corpo alla rabbia di una donna rimasta sola, dopo aver perso marito e figlio (così almeno ci è dato capire all'inizio) abbandonata dalla società (a iniziare dagli stessi vicini di casa che non si lamentano più nemmeno dei rumori che faceva la sua famiglia, ora che la sua famiglia non c'è più) e dal mondo. Una donna cui è stato strappato tutto che interloquisce con le voci che sente nella testa lambiccandosi con i se e con i ma di un destino compiuto che vorrebbe poter cambiare. Figura centrale ma non unica di questo plot, è il personaggio di Marina la madre coraggio coadiuvata da tre voci recitanti che interpretano, all'inizio le voci ossessionanti della sua coscienza, poi quelle dei ricordi di un destino che si presenta allo spettatore già segnato e che Marina sembra evocare intenta a riempire coi fantasmi del passato un presente fatto solo di assenza.
Ma quasi nulla funziona nella scrittura di Vania Mattioli.
L'impianto narrativo vive di una irrisolta ambiguità di fondo: all'inizio le sorti di Marina sembrano già decise, e la ragion d'essere del suo raccontarsi sembrano poggiare sulla volontà di ripetere all'infinito una storia già decisa, una sciagura già accaduta. Alla conclusione dello spettacolo invece la vicenda di suo figlio Gianluca, drogato di merda, sembra trovare altre soluzioni. Ma allora qual è il senso della messa in scena? Evocazione, ricordo o cronaca di quanto succede? Il testo non è chiaro su questo lasciando lo spettatore con un nodo irrisolto che sfocia presto nell'insoddisfazione.
Nello stile Cuoremio è sempre alla ricerca di metafore, tropi, allegorie poetiche che tolgono spontaneità al personaggio di Marina la cui rabbia si esprime tramite considerazioni troppo pensate per essere davvero quelle immediate e spontanee di una donna arrabbiata. Figure retoriche che non brillano per l'ispirazione poetica e che nulla aggiungono a una storia ben conosciuta, anche perché già ampiamente saccheggiata da tutti i media (teatro, cinema, musica). Gianlcua in preda ala droga, ruba, picchia, minaccia, forse uccide, scappa, ritorna, gioisce della morte del padre, lo accusa di essere assente, accusa la madre di pretendere troppo, e si rammarica di non essere quel figlio perfetto che lei voleva lui fosse, mentre Marina, lei, la madre, si contorce, grida, se la prende con dio, si accusa di non aver agito prima, si dispera per il suo fallimento: insomma un florilegio dei luoghi comuni sulle storie di droga.
Seguendo una sottile vena di cattiveria Marina si prende i rimproveri dei dottori, del marito, della ragazza di Gianluca, quasi fosse lei la colpevole senza che il testo chiarisca per chi parteggi o come la pensi, con poche eccezioni come quando Marina, scoprendo che Gianluca ha picchiato la sua ragazza (la stessa che all'ospedale, durante una crisi precedente, la aveva accusata di essere ipocrita e di non saper vedere) ne prende le difese, senza ottenere riconoscenza alcuna, ma, anzi, ulteriori critiche. E anche le dinamiche che, in seguito alla denuncia di Marina alla polizia portano Gianluca in carcere (unico posto dove ti puoi salvare dalla droga, come se in carcere la droga non girasse...) sono approssimative (Gianluca è un semplice spacciatore o un mercante della droga?). Non ci poniamo queste domande per puntigliosità ma per restituire profondità a un problema concreto che nel testo viene affrontato in una chiave estetizzante catalizzando su alcuni snodi drammaturgici accenni narrativi abbozzati e poco chiari.
Il personaggio di Marina costantemente arrabbiato è costruito in modo tale da non permetterle sviluppo alcuno (e Diletta Oculisti fa dei veri e propri salti mortali per dare senso ai ripetitivi scatti di ira di Marina, puntualmente
e troppe volte sottolineati dalle tre voci narranti che ripetono all'unisono le sue ossessioni). Anche la regia non sa muoversi con un testo così poco congeniale e l'intento dichiarato nelle note di regia di approdare a uno spettacolo rock-shock naufraga già alle linee di partenza: il rap con cui si apre lo spettacolo, con tanto di microfoni (che i tre coadiuvatori di Diletta continueranno ad usare anche quando interpretano i vari personaggi) maldestro e poco riuscito, non ha alcun seguito nello spettacolo le musiche (Yann Tiersen e Rollback) sono impiegate come sipario tra una scena l'altra (efficacemente sostenute dalle luci di Marco faccenda che sanno distinguono i vari ambienti in cui la storia ha luogo).
Di Diletta Oculisti si è già detto, dei suoi compagni di scena Fabio Maffei risulta stonato e retorico mentre recita la lettera del marito-padre che si lascia morire di un male incurabile, o quella del prete che le scrive dal centro di recupero per tossicodipendenti dove si trova Gianluca (ma non era in carcere? O si tratta forse di una fantasia di Marina?); Valentina Caimmi è più a suo agio nel ruolo della ragazza di Gianluca che negli altri interventi col microfono, mentre Simone Marzola è un intenso Gianluca purtroppo danneggiato da un testo che gli dà le battute più banali (mamma perché mi si è spento il celeste davanti e dietro gli occhi?).
Cuoremio è uno spettacolo intermittente che sa prenderti per abbandonarti subito dopo e che si impone per la prova dei suoi attori (anche se Diletta è davvero troppo giovane per essere una madre coraggio convincente) non per il testo, incerto e tonitruante.
Visto il
29-09-2009
al
Belli
di Roma
(RM)