Con Da Krapp a senza parole la compagnia Mauri Sturno rivisita quattro testi di Samuel Beckett con una messinscena impeccabile, proponendo una silloge intelligente (con tanto di didascalie informative video-proiettate tra un testo e l'altro) che affianca a testi più conosciuti come L'ultimo nastro di Krapp, del 1959, gli atti unici Atto senza parole, del 1956, Respiro, del 1968, e Improvviso dell’Ohio, del 1980.
Rivisita perchè Sturno e Mauri, prima ancora di metter su una compagnia assieme, hanno portato in scena entrambi Atto senza parole mentre Mauri è stato il primo a portate Krapp in scena in Italia, nel 1961.
L'accostamento di questi testi permette di confrontare le novità del teatro di Beckett che non si esauriscono nella parola, che si vuole rarefatta e poco comprensibile, tanto da annoverare le sue commedie nel teatro dell'assurdo - riducendolo alla convinzione che la vita dell'uomo, le cui relazioni interpersonali sono caratterizzate dall'incomunicabilità e da una crisi di identità, sia senza senso e senza
scopo - ma affonda le radici in quel teatro di regia, scritta nelle didascalie, precise e inderogabili - comprese la durata e la potenza delle luci -, secondo una pratica cominciata, agli inizi del Novecento, da Luigi Pirandello.
Una drammaturgia che riesce a fare a meno della presenza umana (Respiro) e della parola (Atto senza parole) perseguendo con coerenza un programma estetico semplice e chiarissimo.
Tra le peculiarità di Beckett c'è anche il bilinguismo che lo fa scrivere tanto in inglese (Respiro, Improvviso dell'Ohio, L'ultimo nastro di Krapp) quanto in francese (Atto senza parole) con un uso ricercato della sintassi, ma raramente del lessico come invece Fruttero e Lucentini hanno cercato di suggerire in italiano con soluzioni ardite e, in parte, discutibili come le unspoken word (t.l le parole non dette) di Improvviso dall'Ohio che in italiano diventa parole mute, o un disparire (costruito sul calco di apparire) per scomparire, che in italiano danno una impressione di ricercatezza e bizzarria della lingua che nell'originale non ci sono (in inglese appear e disappear sono parole correnti niente affatto particolari).
Sarebbe ora di restituire questi testi alla loro semplicità e immediatezza anche lessicale, approntando delle traduzioni meno d'autore, proprio come Mauri e Sturno fanno nella drammaturgia e nella recitazione dimostrando con una eleganza che fa onore al loro mestiere e al teatro tutto, come non è Beckett difficile e complicato, ma difficile e complicata è la vita. La vita che Beckett pur nella sua angoscia, ha saputo raccontarci con una sotterranea ma struggente pietà come si legge nel programma di sala.
Per sottrarsi a ogni dubbio interpretativo Glauco Mauri, che firma la regia, e Roberto Sturno premettono ai quattro atti unici un prologo, nel quale, in scena nei panni di Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot, emergendo da due bidoni, dando voce alle rare interviste e dichiarazioni di Beckett sulla sua opera, indicandone il punto centrale della poetica nella mancanza di senso non già della condizione umana ma dell'insopportabile consapevolezza della morte, il cui chiedersi perchè non solo non trova risposta ma non aiuta minimamente a sottrarsene.
Una esistenza breve ,quella umana, che comincia e si conclude con un respiro, quello del primo vagito e quello dell'ultima esalazione, come accade in Respiro, dove nascita e morte ed esistenza da essi contenuta prendono forma in un atto di pochi secondi, su una scena priva di presenza umana che non sia quella del suono della voce, cosparsa di immondizie, quei resti organici prodotti dall'uomo industrializzato che, meglio delle eterne e universali ossa, indica non i resti umani nel lungo periodo ma la produzione contingente dell'animale uomo (e donna). Dei rifiuti che si fanno al contempo metafora della vita umana e segno concreto degli artefatti o, meglio, dei resti dopo il loro consumo, in mezzo ai quali l'essere umano esiste.
Una esistenza caratterizzata da una solitudine che non è mai un destino ,ma sempre il risultato di una scelta, di un comportamento, come nel caso di Krapp che ha rinunciato all'amore per le velleità giovanilistiche di darsi a una carriera artistica che non lo ha arriso.
Krapp ricorda di quell'amore cui ha rinunciato riascoltando, in occasione del suo compleanno, i vecchi diari di 30 anni prima, registrati su nastro magnetico.
Mauri interpreta il monologo sfrondandone la recitazione da quella consuetudine interpretativa che fa di Krapp un personaggio grottesco al quale Mauri restituisce tutta la sua umanità.
Una umanità la cui cifra esistenziale è il fallimento dell'artista (ha venduto 17 copie del suo libro) e dell'uomo (la perdita dell'amore). Il riaffiorare del ricordo non ha dunque una funzione di affermazione dello spirito sulla caducità della vita (come avviene per esempio in Proust) ma di constatare il fallimento come inevitabile conseguenza umana.
Quando Beckett scrisse la commedia nel 58, il registratore a nastro magnetico era una novità tecnologica assoluta e il fatto che un Krapp anziano e solo riascoltasse i nastri registrati 30 anni prima rendeva la pièce
storicamente impossibile. Per questo la scena è ambientata nel futuro.
Il nastro vecchio di 30 anni che il Krapp di Mauri ascolta, è il nastro che Mauri stesso incise nel 61 per il primo allestimento della commedia, in un rimando extratestuale che contribuisce a umanizzare Krapp anche se, beninteso, la vita di Mauri è tutt'altro che un fallimento come dimostra il fatto che all'età di 83 anni sia tutt'altro che solo e invece ancora in scena a recitare in una forma smagliante con una energia che solo il palcoscenico, crediamo, riesce a dare.
La solitudine di Krapp è una costante dei personaggi di Beckett che prende anche la forma della solitudine da se stessi come avviene in Improvviso dell'Ohio che ci mostra due presenze identiche, di nero vestite, dai lunghi capelli canuti, una che legge da un libro - nel quale si racconta di come un uomo venne a leggere un libro per consolare un altro uomo, mandato da una figura cara (un amore perduto? ) - l'altra che ascolta e controlla la lettura battendo le nocche sul tavolo.
Seduti ai due lati dello stesso tavolo, in pose speculari - come specificato nelle precisissime didascalie - le due figure identiche guardano infine il pubblico dopo che nel libro si racconta di come le visite del lettore non avverranno più, preconizzando una fine che è sia quella della pièce che quella del personaggioi.
Due volte la stessa persona o due persone che divertano una, in questa doppia cifra si spende la vita umana, rappresa nella sua solitudine di una fine prossima e dunque tutta protesa verso un passato ormai immodificabile.
Una fine come quella di Krapp che si accinge a registrare l'ultimo nastro (commiserando quel povero cretino che è stato lui stesso 30 anni prima) e si rifugia nel passato, riascoltando il ricordo inciso su nastro di quella notte d'amore con la ragazza, cui rinunciò, mentre la bobina finisce e gira vorticosamente a vuoto...
Il passato, la vecchiaia, il sopravanzare della morte sono temi che Beckett affronta senza i lacci di una escatologia sadica e moralista, intrisa di peccato originale o di illusoria salvezza post mortem.
Non a caso, nel prologo Mauri e Sturno ,riportano una dichiarazione di Beckett che precisa che il Godot del suo testo più celebre non è certo dio...
La morte non va temuta, non bisogna opporvicisi, sembra dire Beckett in questi testi, ma lasciarsene attraversare, senza vergognarcene o sentirla come una sconfitta.
Altri sono i fallimenti nella vita e non bisogna temere nemmeno quelli.
Il fallimento è una possibile - necessaria? - conseguenza di chi prova, di chi si assume un rischio, di chi cerca il cambiamento e si espone alla possibilità dello sbaglio.
La morte sopraggiunge non quando ci arrendiamo ma quando non abbiamo più nemmeno lo spirito di provare a interagire e reagire, come capita al protagonista di Atto senza parole interpretato da Sturno.
Unico abitante di un deserto assolato (una scena illuminata al massimo) il protagonista di Atto senza parole risponde agli stimoli diversi di una presenza invisibile che, col suono secco di un fischietto, lo sottopone a una serie continua di prove prima richiamato fuori scena nella quale viene immediatamente respinto, poi cercando invano un po' di ombra e di refrigerio dal sole, mentre la presenza, dispettosa, gli cala dall'alto, letteralmente, prima una palma ombrosa, e poi una brocca d'acqua, sempre troppo in altro per essere raggiunta, non importa quali strumenti arrivano sempre dall'alto, dei cubi di diverse dimensioni, una corda sulla quale issarsi e, una volta tagliata con delle enormi forbici da sarto, un lazo per agguantare invano la brocca (lazo che diventa cappio per strozzarsi nell'unica lettura aggiunta rispetto il testo originale).
Ogni diversa serie di tentativi giunge a termine quando l'uomo si arrende mostrando un fazzoletto bianco che ha l'abitudine di tenere in mano ma è sempre sollecito ad accettare lo stimolo nuovo che gli arriva. Dopo l'ennesima caduta, quando tutti gli strumenti sono portati via così come gli sono stati dati, l'uomo giace a terra e proprio quando l'acqua nella brocca è più a portata di mano, l'uomo nemmeno tenta più di prenderla.
Ecco, questa metafora della dignità dell'arresa e la tenera ineluttabilità della fine che giunge solo quando all'uomo vengono a mancare la curiosità e la determinazione di mettersi alla prova, ritroviamo un Beckett umanissimo e per niente disincantato.
Da Krapp a senza parole si staglia nella produzione italiana contemporanea come allestimento dal respiro e dalla vocazione europee, semplice, esemplare e impeccabile proprio come i suoi due splendidi, grandiosi e indimenticabili interpreti.
Prosa
DA KRAPP A SENZA PAROLE
Mauri e Sturno semplici, esemplari e impeccabili.
Visto il
03-04-2013
al
Piccolo Eliseo Patroni Griffi
di Roma
(RM)