Una testa di marmo corrosa, dalle fattezze irriconoscibili, è proiettata sullo schermo. Si alza il sibilo del vento che ne assembla le particelle disgregate, restituendo al volto l’originaria espressività. Il vecchio custode (Moni Ovadia) si rivolge al giovane, un interlocutore metaforico, e lo mette a parte dei propri sogni. Il fluire della sua voce ha il potere di invertire la rotazione dell’orologio, di togliere la patina di oblio che ricopre le sculture e ricomporre la bellezza frantumata. Le statue assumono fattezze umane in una danza celebrativa dell’espressiva immortale rigidità (Silvia Bastianelli in video e Andrea Dionisi e Francesca Linnea Ugolini dal vivo) e, nel giostrare ciclico, diventano vivi e vitali anche i busti filmati.
Il guardiano porta sulle spalle il peso del tempo, mostrando la stanchezza atavica di chi, per l’intera vita, ha trascorso le giornate a parlare ai turisti senza essere ascoltato, a mostrare antichi reperti a quanti li hanno guardati distrattamente non riuscendo a capirne la venustà, un bene effimero che nemmeno la pietra può rendere eterno. L’ottica si capovolge e l’impenetrabile fissità degli occhi marmorei scruta il pubblico, trasmette un messaggio di eloquente silenziosità. Le statue invocano la libertà dall’esilio in cui la banalità del presente le relega. Le loro candide orbite possono vedere a distanza e anche nell’interiorità di ciascuno, così come dentro le speranze, dove ha inizio la storia dell’uomo.
Le parole sgorgano liquide, reiterate in italiano e in greco, accomunando in un grido di dolore universale l’amarezza, la rabbia, la ribellione alla vacuità dell’oggi rispetto allo splendore dell’antichità classica. A poco a poco la valenza del linguaggio si assottiglia e le suggestive liriche di Yiannis Ritsos passano il testimone della comunicatività alla musicalità intrinseca ai due idiomi, utilizzati da Ovadia in un gioco di rincorse, echi e sovrapposizioni, confuso tra il cupo rimbombo di voci e automobili proveniente dalla strada. Il mugghio graffiante del vento, la voce del tempo, zittisce infine l’angoscia e si tramuta nel ritmo benigno di sirtaki che indica una via d’uscita. Danzando il custode la imbocca, con un sorriso, finalmente pacificato dalla quiete posatasi sui gradini dell’anfiteatro di Delfi.
Un leggio ha aiutato la memoria, giustificabile nei lunghi stralci in greco, ammanettante nelle parti in italiano e un microfono ha amplificato la voce, assimilandola alla risonanza del passato, a scapito della naturalità. Uno spettacolo di grande intensità, che presto ha messo in campo tutti i begli spunti per poi illanguidirsi su uno scorrere dolce e melodioso.