Lirica
DER ROSENKAVALIER

Viale del tramonto

Viale del tramonto

“Versteht Er nicht, wenn eine Sach' ein End' hat?” “Ma non si rende conto se una storia è finita?, rimprovera la Marescialla al Barone. In un solo verso, sul finale dell'opera, il Cavaliere della Rosa condensa la sua eleganza crepuscolare. Sul libretto di Hugo von Hofmannsthal, Richard Strauss evoca lo spirito del Settecento per celebrarlo, sì, ma nella consapevolezza che il tempo dell'amore ha le sue stagioni, e anche il tramonto merita un sorriso. Un'iniziazione all'amore e alla vita di due giovani innamorati, all'interno di una trama allegra e frizzante giocata su inganni ed equivoci; nostalgia e malinconia di un sublime valzer degli addii”. Queste righe dal programma di sala ben sintetizzano l'opera, un capolavoro di eleganza raffinata e di malinconia di cui quest'anno ricorre il centenario dalla prima esecuzione assoluta a Dresda.

Come nella musica di Strauss, nello spettacolo di Herbert Wernicke (suoi regia, scene e costumi importati dai teatri di Madrid e Parigi) il Settecento è un ricordo, un riflesso, una disposizione d'animo non legata all'arido materialismo illuminista quanto piuttosto incline alla malinconia, ma non per questo incapace di una serenità che si basa sul ricordo del passato più che sulle aspettative future.

Le superfici a specchio di grandi prismi triangolari rimandano la sala del Piermarini oppure, angolati in modo particolare, riflettono scene dipinte, creando un affascinante gioco di riverberi, visivi e simbolici. Il palazzo della Marescialla ha le pareti rivestite di boiserie di legno contornate da elementi dorati, la magione di Faninal ha toni bianchi impreziositi da stucchi e ritratti, l'hotel ha camere foderate di stoffe preziose, il finale è dentro una prospettiva di bosco autunnale, un viale del tramonto che è tutto nella musica straussiana e nella parabola della Marescialla, un viale del tramonto che è proprio dell'amore.
I costumi sono di epoca imprecisata ma sicuramente novecenteschi, a confermare lo sguardo lontano su quell'epoca mozartiana, sguardo a cui le due carrozze del finale conferiscono una sorta di accentuato anacronismo. Le luci di Marco Filibeck valorizzano al massimo l'allestimento.
La regia è efficace nel cogliere gli spunti divertenti senza calcare la mano e nel sottolineare i momenti lirici e di soffusa malinconia con giusta misura. Alejandro Stadler, che ha ripreso il lavoro di Wernicke, muove i protagonisti in base a una vera drammaturgia, con molta attenzione alla gestualità anche minima per tutti, cantanti e comparse. Il “negretto” della Marescialla viene sostituito da Pierrot, personaggio malinconico per eccellenza, che apre il sipario all'inizio, è presente quando il libretto lo richiede, nel finale sostituisce la rosa d'argento in mano ai due innamorati con una vera rosa per poi chiudere a forza il sipario, mentre si strucca il viso dal nero e lascia cadere in proscenio il fazzoletto bianco.

Il successo pieno dello spettacolo è merito anche dei cantanti, chiamati a una precisa prova attoriale superata ottimamente. Anne Schwanewilms è la Marescialla e regala un'interpretazione così perfetta e convincente da commuovere; altera e nobile, il suo contegno vira dalla complicità iniziale con Octavian alla consapevolezza che ormai il tempo è trascorso (non invano), all'accettazione del nuovo amore di Quinquin, tutto con animo estremamente coinvolto, mai glaciale e distante; il suo avviarsi a piedi nel finale lentamente nel bosco evoca davvero il senso più profondo del “viale del tramonto” espresso dalla musica; indimenticabile il gesto del toccarsi i capelli per spostare un riccio dagli occhi, il dito che asciuga una lacrima, oppure quel senso di distacco, leggermente malinconico, che è difficile da rendere a parole ma che ha dato i brividi alla platea; la voce ha un registro acuto di radiosa luminosità, il centrale morbidissimo e il grave intenso e corposo. Joyce Didonato è un Octavian da manuale per il piglio e la vivacità nel primo atto, l'incanto lirico e la delicata sensibilità nel secondo, il buffo atteggiamento nel terzo fino al finale denso di nuova consapevolezza: un ruolo basato su un'impulsiva fragilità e un'irresponsabile leggerezza indimenticabili; il timbro è gradevolissimo e rende al meglio ogni piega della partitura. Nonostante un'annunciata indisposizione, Peter Rose convince come Barone Ochs in abito tipico, voce adeguata e gesto contenuto pur nelle inevitabili buffonerie che il ruolo richiede (basta un riccio svirgolato sulla fronte, quel “riccio dell'antenato Lerchenau” a cui fa riferimento nel primo atto). Jane Archibald è una Sophie bamboleggiante e vocalmente adeguata, accanto alla golosa Marianne di Ingrid Kaiserfeld e al rigido arrivista Faninal di Hans-Joachim Ketelsen. Bene accoppiati Valzacchi e Annina, Peter Bronder (che legge la Repubblica) e Helene Schneiderman. Francesco Meli dà giusta enfasi e colore italiano al Cantante, che si presenta con l'agente e divora un piatto di spaghetti. Adeguati tutti i numerosi comprimari e le comparse, come i valletti in costume settecentesco.

Se mai un'opera vive di una propria, particolare atmosfera, questa è sicuramente il Rosenkavalier: atmosfera che dipende sì dai cantanti ma anche (e soprattutto) dal direttore. Philippe Jordan imprime all'orchestra tempi adeguati e suoni controllati, trattando la partitura con cura esemplare. La musica è leggera, trasparente, robusta quando serve per poi tingersi di elegiaca malinconia. L'orchestra lo asseconda in maniera ottimale, rendendo quel senso un po' metafisico della nostalgia tradotta in sublime perfezione: la vicenda resta teatrale ma i personaggi sono resi con umanità.

Pubblico numeroso con molti stranieri; grandi, calorosi applausi per tutti.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)