Nonostante i quasi tre lustri trascorsi, l’apprezzata messinscena firmata dal regista Federico Tiezzi funziona, piace, convince. Il teatro napoletano riprende il fortunato allestimento dell'opera Die Walküre del 2005.
Il teatro napoletano riprende il fortunato allestimento dell'opera Die Walküre del 2005, insignito nel 2006 del XXV Premio Franco Abbiati della Critica Musicale Italiana per la scenografia di Giulio Paolini e i costumi di Giovanni Buzzi.
Un emporio di simboli
Nonostante i quasi tre lustri trascorsi, l’apprezzata messinscena firmata dal regista Federico Tiezzi funziona, piace, convince. E non perché sia ‘attuale’, ma per la sua natura metastorica e per la sua capacità di raccontare il mito attraverso mezzi essenziali e tratti di incantata purezza. Un’ampia struttura metallica domina l’intera rappresentazione. È uno spazio neutro e freddo, che fa pensare a una gigantesca gabbia; forse è la prigione che intrappola il destino dei celesti, forse è il paradosso che attanaglia Wotan, il signore degli eserciti, il più potente e il meno libero tra gli dei.
La griglia vuota si popola via via di oggetti e di simboli per incorniciare le diverse fasi dell’azione. Nel primo atto accoglie un enorme frassino stilizzato con la spada promessa a Siegmund, nel secondo cupe masse rocciose che evocano la montagna selvaggia sulla quale si svolgono i colloqui tra Wotan, Brünnhilde e Fricka, nel terzo calchi in gesso che rappresentano le possenti membra degli eroi prescelti dalle vergini guerriere.
Tra dettaglio e quadro d’insieme
In questa dimensione asciutta ed elegante, ravvivata da un uso accorto dei colori di sfondo e delle luci (governate da Gianni Pollini), spiccano alcune invenzioni di grande efficacia, come gli specchi introdotti per sottolineare il tormento di Wotan condannato a ritrovare sempre sé stesso nelle creature che genera, o come i candidi pannelli laterali a gradinate che nell’ultimo atto evidenziano la dolorosa contrapposizione tra Wotan e Brünnhilde.
Gesti e movimenti sono essenziali ma curatissimi e appropriati, perfettamente coordinati – per una volta! – con il respiro della musica e con le sue valenze narrative. Il risultato finale è un’azione sempre comprensibile ma mai didascalica, nella quale i tormenti e le passioni dei protagonisti emergono con evidenza plastica e si offrono alla partecipe contemplazione del pubblico.
Concentrazione e lirismo
Sul podio Juraj Valčuha, direttore musicale del San Carlo e Premio Abbiati 2018. Il maestro slovacco è a proprio agio con Wagner e attraversa la partitura con tesa concentrazione, senza cedimenti e senza sbavature. Ciò non gli impedisce di dare risalto e calore alle parti più intensamente liriche, specie alla fine del primo atto. L’orchestra lo segue e lo asseconda con attacchi netti e riflessi brillanti, ma incorre talvolta in spiacevoli imprecisioni.
Le voci sono tutte di alto livello. Nel terzetto che anima il primo atto, spicca Liang Li nei panni di Hunding, che sfoggia potenza e precisione ma anche incisiva presenza scenica. Lo affiancano egregiamente la trepidante Sieglinde di Manuela Uhl e il generoso Siegmund di Robert Dean Smith. Ottima per colore, intonazione e interpretazione la Fricka di Ekaterina Gubanova. Notevolissimo anche Egils Silins, che scolpisce con bravura il profilo di Wotan e sa mostrarne sia lo slancio imperioso, sia la sofferta introspezione. Energica fino ai limiti dell’irruenza la Brünnhilde di Irene Theorin.
La sala del San Carlo è piena ma non stracolma e registra qualche defezione tra il secondo e il terzo atto. Il pubblico segue con grande attenzione e saluta tutti gli artisti con calorosi applausi; l’approvazione forse più fragorosa è per Valčuha, già apprezzatissimo nella Kàt'a Kabanovà dello scorso dicembre e ora atteso interprete della Cavalleria rusticana in programma all’inizio di luglio.