Prosa
DIGNITà AUTONOME DI PROSTITUZIONE

Libertà è partecipazione

Libertà è partecipazione

Che lo spettacolo sarà diverso dal solito ...rito borghese lo si capisce prima ancora di entrare a teatro. Dei proiettori posti lungo i gradini d'ingresso del Teatro d'Italia colorano di rosso le colonne che ne istoriano la facciata. Altri proiettori  inondano il foyer di luce rossa ribadendo allo spettatore che è venuto a vedere Dignità autonome di prostituzione di Luciano Melchionna (dal format di Betta Cianchini e Luciano Melchionna) uno spettacolo che vende l'arte della recitazione proprio come nei postriboli una volta si vendeva sesso.
Ogni spettatore assieme al biglietto riceve dei dollarini coi quali pagare  le performance degli attori che vengono contrattate direttamente con loro (e con le loro maîtresse).
E mentre gli spettatori sparsi ancora lungo il foyer attendono che lo spettacolo inizi, già qualcosa si muove: una giovane, inequivocabilmente vestita, sollecitata dal suo protettore, porta con sé un piccolo gruppo di spettatori per strada,   fuori dal foyer, conducendoli alla sua autovettura dove recita il suo monologo.Ogni attore vende infatti pillole di teatro della durata non superiore ai 15 minuti l'una.
Il tempo passa. Spettatori (dall'aria soddisfatta)   e attrice (col sorriso sulle labbra) rientrano e la serata inizia ufficialmente.
Come in un bordello di altri tempi, tenutaria e prostitute (e prostituti), accolgono il pubblico. Discinte, sfacciate, allegre e insolenti invitano i clienti ad accomodarsi all'interno.
Dentro, la platea è stata rivoluzionata. Molte poltrone sono state tolte, lasciando libero uno spazio al centro del quale un uomo elegante e una donna di bianco vestita, lei riversa sulla sedia, giacciono immobili.
Mentre il pubblico si accomoda dove può, tra poltrone occupate da altre poltrone che danno davvero l'idea di un teatro adibito a qualcosa d'altro,
si fa buio in sala e viene proiettato il video della toccante canzone  di Pilar Meduse. Intanto attori e maîtresse si sono divisi tra palcoscenico, gallerie e loggioni e Luciano Melchionna dirige un brano da loro cantato in coro,  nel quale si rivolgono al macellaio contro il quale insorgono. Lo spettatore, letteralmente circondato, deve girarsi a per seguire tutti i perfomer.
Poi Adonay Mamo esegue l'aria Vissi d’arte dalla Tosca di Puccini: Adonay è un giovane, avvenente ragazzo, ma la voce con cui canta non è da tenore bensì da soprano, così pura e cristallina da indurre a credere in un primo momento che sia in playback. Invece è proprio lui che canta mentre sul fondale viene proiettato a  caratteri cubitali il nono articolo della nostra Costituzione La  Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e  tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della  Nazione, parole quanto mai disattese in un periodo durissimo per la cultura del nostro Paese. E mentre viene proiettato anche il video a sostegno dei teatro italiano Gianluca Merolli, sulle note di un classico stornello romano, presenta officianti e attori le maîtresse della serata: l’autoritaria direttrice Lia (Michael Schermi), la sua bellissima e svampita fidanzata Wanda (Clio Evans), la mascotte Cerebro (Gabriele Guerra) e l'inflessibile Gelida (Alessandra Muccioli) e le prostitute e i prostituti ognuno con un nome che ne mette in risalto caratteristiche e attitudini: mentre l'amministratore Melchionna supervisiona lo spettacolo .

E' solo l'inizio di una lunga serata, che si concluderà solo dopo la mezzanotte, durante la quale maîtresse e attrice e attori irretiscono il pubblico che, all'inizio ancora un po' spaesato, segue questo o quell'attrice, che lo conduce nel luogo deputato alla sua performance, tutti monologhi, nelle parti più impensabili del teatro. Dai sotterranei alla sommità del palcoscenico, nel sottotetto, da una stanzina nella quale entrano a malapena 6 persone, a una sala di disimpegno dove ci sono tubi e macchinari le performance danno allo spettatore modo di vedere il teatro (inteso come edificio) sotto un punto di vista inedito.
Tra una performance e l'altra si torna sempre in platea dove gli attori e attrici non al lavoro in quel momento, assieme ad alcuni cantanti e musicisti, intrattengono il pubblico che aspetta, o accolgono con un applauso quello appena di ritorno da un monologo. Un rito, che si ripete più volte. E se finisci i dollarini li ricompri dalle maîtresse .

Man mano che il tempo passa, e che il pubblico si abitua al rito, l'atmosfera si fa disinvolta, ci si sente a casa, si riconoscono alcuni spettatori coi quali magari si è assistito a un monologo un'ora prima (ogni performance è agile e non dura più di 15 minuti).
E' impossibile seguire tutte le performance, eppure ogni sera attori e attrici cambiano, cambiando anche i monologhi.
L'idea di seguire il o la performer   che ti conduce per scale e scalini, per stanze e sotterranei è anche un modo per testare la natura dell'attore  che un secondo prima ti intrattiene recitando la parte del prostituto (della prostituta)  e un secondo dopo si immerge davanti ai tuoi occhi nella parte, diventando altro.
Durante la serata chi scrive ha assistito a sei monologhi. E' di quelli che riferirà, ripromettendosi un proseguo, quando tornerà ad assistere allo spettacolo, unico nel suo genere.
La prima performer è stata H.E.R.  che ha scelto lei chi scrive e non viceversa (lei adesso non mi abbandona e viene con me vero?).  H.E.R. (nome d'arte della cantante e violinista Erma Castriota) ci seduce  con la sua chioma fluente,  il corpo procace che mostra senza pudore né esibizionismo (sarebbe sicuramente piaciuta a Fellini) mentre ci guida nel luogo dove reciterà, dopo aver contrattato sul prezzo (due dollarini) il monologo L'evidenza  di Riccardo Regoli.
H.E.R si infila dentro un girello (costruito da Alessandro Baronio) che le cinge la vita e comincia il suo monologo. Un racconto delirante su un rimorchio in una libreria, sulla voglia della protagonista di essere sedotta, amata, conquistata, in bilico tra un'alta percezione di sé (e degli altri) e un inconfessato e spasmodico bisogno di affetto di cui il girello costituisce una sorta di stampella emotiva (o un intralcio, piuttosto?) segno tangibile di una esistenza condannata alla solitudine.
Ridiscesi in platea passando per il palcoscenico è la volta di Federica Stefanelli che ci conduce in una stanza piccola e stretta nella quale a malapena ci stiamo tutti e otto  noi spettatori. A contrattare sul prezzo è la maîtresse Wanda (Clio Evans, vero animale da palcoscenico (a fine performance, ben oltre la mezzanotte, avrà ancora la stessa energia d'esordio, salutando avventori e avventrici con una voce garrula ancora piena d'entusiasmo).  Con un parlare appena accennato da oca giuliva Wanda fa raccomandazioni tutt'altro che sciocche come quella di spegnere i cellulari (non si sa mai) e di non impallare né toccare il proiettore che troveremo nella saletta altrimenti l'attrice reciterà al buio...
Federica Stefanelli recita La Giulietta un estratto dal Giulietta e Romeo di Shakesperae e sorprende la sua capacità di entrare subito non solo nel personaggio ma anche in un momento così delicato della storia: il monologo infatti è tratto, con qualche modifica, dal quarto atto, subito prima che Giulietta beva il veleno che la farà sembrar morta per 48 ore...
In sottofondo si sentono i rumori delle risate e della musica che provengono dalla platea e viene spontaneo chiedersi come l'attrice riesca a non lasciarsi distrarre, ma poi, noi spettatori sentiamo solamente le sue parole e non più la confusione  che c'era prima e ci rendiamo conto cosa sia l'arte della recitazione  e di trovarci dinanzi ad attrici (attori) davvero brave.
Poi è la volta di Gianluca Merolli che ci fa salire su, su fino alla seconda galleria (e oltre!) su una scala ripida, guadagnando il punto più alto accessibile del teatro. Una contrattazione in due parti (un dollarino subito, il secondo dopo la performance se vi è piaciuta) per assistere al monologo La Nella di Luciano Melchionna, nel quale il giovane ragazzo partenopeo racconta con candore e rabbia della nonna Nella, che lo ha cresciuto come un figlio, e che faceva la vita. Dalla scoperta del mestiere della nonna, ai ricordi di infanzia, all'ipocrisia di parenti e vicini, fino all'età adulta quando anche il ragazzo segue la strada intrapresa dalla nonna (sapeste quante donne e quanti uomini mi sono scopato) Merolli interpreta un testo difficile nella sua progressione emotiva nel quale sa destreggiarsi a meraviglia nonostante un importuno spettatore lasci squillare ben due volte il cellulare (in realtà è il segnale di batteria scarica...) mentre tutti gli altri spettatori (non più di una decina) guardano al disturbatore con un deciso ma bonario cruccio. Merolli si ferma quel tanto da permettere all'inopportuno di silenziare l'odiato pezzo di tecnologia e riprende come non fosse stato interrotto. Un monologo di rara bellezza (nel quale la commistione tra italiano e la lingua napoletana è di una efficacia e eleganza esemplari) che finisce col giovane protagonista commosso fino alle lacrime che tracimano dal personaggio all'attore che ci mette qualche istante a tornare in sé (o meglio dal ruolo del monologo a quello di prostituto) in uno dei momenti più intesi della serata, di quelli che restano per sempre nel cuore dello spettatore, che, infatti, apprezza e lascia generosamente qualche altro dollarino.
Data la fortuna di essere tra gli ultimi a scendere la ripida scala metallica del sottotetto incontriamo Nella Tirante che è già pronta a interpretare il suo monologo Il fantasma dall'atto unico "All'uscita" di Pirandello e restiamo dunque ad assistere anche alla sua performance. Volto emaciato, veste bianca sporca di sangue (è lei che ci ha accolti riversa sulla sedia a inizio serata) Tirante, che ricorda le donne di fine ottocento ritratte da Giovanni Boldini, recita il monologo, in dialetto siciliano, di una giovane donna uccisa dal marito per gelosia. Esemplare nel restituire i passaggi emotivi del fantasma (nell'atto unico di Pirandello compaiano all'uscita di un cimitero) dal racconto della sua morte alla rabbia per essere stata uccisa all'euforia pazza della morte che è una sorta di liberazione, Tirante recita sulla struttura che sovrasta il palco ad almeno 5 metri di altezza: delle fragili assi di legno evidentemente abbastanza solide da sostenere il peso di una persona, ma che, data la minuta fisicità dell'interprete, contribuisce a dare leggerezza alla corporeità evanescente del fantasma. Fantasma che, alla fine del monologo, scompare senza che Tirante rientri per prendersi i meritati applausi.
Testi in italiano o in lingue dialettali, di autori contemporanei o di classici del teatro, vivono insieme in una serata unica e irripetibile (e infatti ogni replica è un evento a sé).
Di nuovo in platea, dopo una discesa ardua che tutti quanti compiamo ognuno secondo le sue possibilità, in base all'età (è la serata degli abbonati e c'è tra il pubblico un'alta componente di pensionati) e alla stazza (compresa quella di chi scrive che fa scricchiolare la scala a pioli...) ma anche questo, accomuna
è la volta di Ilaria Spada che interpreta La ritrattista secondo monologo di Melchionna cui assistiamo. Attiratici in una stanza nella quale si sta ancora lavorando di intonaco per adibirla a ufficio, Spada ci fa accomodare su due file di sedie poste dinanzi una scrivania dove comincia un monologo (un finto dialogo) nel quale interpreta un alto quadro dirigenziale di una agenzia per il sostegno culturale del governo italiano che dialoga con un artista venuto a chiedere sostegno pera la sua arte. Prima con toni algidi e professionali poi via via con quello meno formale della parlata romana (ma non dialettale) condito da sempre più frequenti parolacce emerge prima la retorica burocratica di chi premia i soliti conosciuti (anche se fanno schifo dobbiamo continuare a  premiarli altrimenti significa che ci siamo sbagliati) e poi la schietta vendetta di chi non ha talento alcuno... Un testo che dietro la dissacrazione dei quadri medi mette in luce un intero sistema di (dis)valori che che si sono introdotti nelle nostre istituzioni...
L'ultimo monologo cui facciamo in tempo a seguire prima del gran finale (è quasi mezzanotte ormai) è quello di Sandro Giordano il quale, fattici accomodare nell'anticamera di un bagno, su delle sedie, di fronte a lui, a sua volta seduto, interpreta Il Pompei, sempre di Luciano Melchionna, nel quale racconta con pudore, ma lucidità, l'atto sessuale che ha dovuto subire da bambino dall'autista del pullman che aveva portato la sua classe in gita a Pompei.
Melchionna è magistrale nel descrivere con precisione il portato psicologico del bambino che, tra paura e sconcerto per quel che gli sta succedendo, scopre anche di trovare piacevoli certe sensazioni fisiche, le quali invece di liberarlo, di autodeterminarlo, lo incatenano nella colpa, giungendo a giustificare la violenza subita come punizione per quel che scopre essergli piaciuto.
Senza giustificare né trattare come elemento di scandalo quello che a tutti gli effetti è, se non un vero e proprio stupro, sicuramente un atto di sopraffazione,  l'io narrante, oggi adulto che ritrova in sé le emozioni del bambino che era,  ci restituisce in tutta la sua concretezza, senza risparmiare dettaglio alcuno, una violenza, una sopraffazione, nella quale l'adulto è giocoforza il più forte. Melchionna riesce nel difficile compito di raccontare un atto di pedofilia senza retorici toni di denuncia nè morbose curiosità descrittive, lasciando che sia il portato degli atti compiuti dall'adulto sul bambino a raccontare il dilagare di un sentimento  che cambierà per sempre la vita del bambino che, ci dice il suo io narrante adulto, da quel giorno ha smesso di giocare, per smepre.
La fisicità di Sandro Giordano, possente, virile, maschile, oltre, beninteso, alla precisione con cui restituisce recitando la calma, il candore, la paura e la vergogna di quanto successo al personaggio che interpreta, dà al monologo un eco emotivo ancora maggiore proprio per lo scarto tra la corporeità di chi racconta e la fragilità del bambino di allora.
Melchionna, che dirige tutti i monologhi in scena, si dimostra così non solo un regista sensibile e talentuosamente inventivo,  ma anche un autore preciso, interessante, mai banale, che ama il teatro e rispetta gli attori dando loro testi impegnativi ma sempre intellettualmente onesti, privi della voglia di piacere per forza. Testi che hanno bisogno di un attore in gamba per essere recitati ma che non sfruttano mai l'attore per affermarsi come testi importanti più di chi li interpreta.

Tornati in platea troviamo un'atmosfera rilassata, spettatori e attori sono diventati vecchi amici e assistiamo a un gesto di affetto e devozione che porteremo sempre con noi. Nella Tirante, il fantasma, attende come tutti il gran finale  disposta su una sedia, un po' come l'abbiamo vista a inizio serata, ormai non più in ambito performativo ma di semplice attesa. Quando si lascia andare in una posa tenera uno degli spettatori, un signore di una certa età, dal viso solare e pacato, le si avvicina piano da dietro e comincia a sfiorarle delicatamente con le dita tempie e viso in una sorta di massaggio niente affatto sensuale ma come un padre può fare a una figlia stanca dopo tanto lavoro. Melchionna deve essere contento e soddisfatto del risultato ottenuto, di aver fatto sentire attori e pubblico una cosa sola, due parti diverse ma essenziali per la riuscita della serata, in barba alle divisioni borghesi tra platea e palcoscenico, in barba all'idea che il teatro sia una cosa d'élite, per pochi, restituendo dignità a un lavoro e a un rito vituperato da troppi tagli finanziari di uno Stato irresponsabile e di troppe  parole spese a demolire una delle poche forme d'arte contemporanee capace ancora di mantenere l'aura anche nel pieno della riproducibilità tecnica. Ogni replica è uno spettacolo a sé infatti, un pezzo unico,  e Dignità autonome di prostituzione celebra ogni volta l'unicità, l'eccezionalità ma, anche la vitalità del teatro e del fatto che sia indispensabile alla civile convivenza.
Uno spettacolo di resistenza che dimostra la grandezza del lavoro dell'attore, (ri)pagato come una puttana e di come, assieme  al regista e all'autore, contribuiscano ad un'arte cui basta poco per esser danneggiata o preclusa.
Il donarsi totale di tutti gli attori e le attrici a un progetto cui devono credere davvero, perchè contrariamente a quanto si crede a teatro amore e devozione non si improvvisano, investe ogni spettatore di una energia che lo trasfigura trasformandolo da passivo e anonimo astante a riconosciuto e necessario elemento del rito teatrale.
Il gran finale annunciato vede alcuni degli attori proporsi nel ruolo per cui sono più conosciuti quello di musicisti e cantanti. Dunque Momo, tolti i panni della Pazza (uno dei monologhi che non abbiamo avuto il piacere di vedere), canta le sue ballate tristi mentre  H.E.R. la accompagna col suo violino modificato elettronicamente. Un finale degno dell'intera serata, tra canzoni a capella e improbabili spogliarelli.
E avvezzi a una familiarità che dura da qualche ora arriva il momento in cui bisogna accomiatarsi mentre ci si ripromette di tornare per vedere i monologhi che non si sono visti e per scoprire chi c'è in scena un'altra sera visto che performer e monologhi cambiano e non sono sempre gli stessi.


Non fatevi dunque sfuggire l'occasione di veder uno spettacolo che restituisce al teatro tutta la dignità che da più parti gli si sta togliendo. E se oltre all'entusiasmo galvanizzante col quale uscirete dopo averlo visto scoprirete dentro di voi anche indignazione per quanto sta accadendo in Italia sul fronte culturale, urlate, fate sentire la vostra voce, dite a quante più persone potete di venire a vedere lo show.
Perché, come diceva Giorgio Gaber, libertà è partecipazione.

Visto il 15-02-2011
al Bellini di Napoli (NA)