Compressa in un universo arcaico di regole esatte ed inviolabili, la donna "dissonorata" di Saverio La Ruina subisce il suo destino non solo attraverso la violenza esplicita delle relazioni umane, ma soprattutto per aver fatto proprio nella coscienza il codice della privazione, della rinuncia, della mutilazione dell’identità. La scabra asciuttezza della scena – una sedia, e l’autore stesso che diventa la protagonista semplicemente indossando un grembiule sopra gli abiti maschili – non riduce la drammaturgia a "narrazione": il denso memoriale della donna non è fatto soltanto di parola, ma anzitutto di segni d'espressione, di gesti, di posture, di moti del corpo. La parola riporta una storia archetipica di "predestinazione" femminile in una comunità controllata da norme maschili. La scrittura è pacata, il ricordo rassegnato, puntellato di lenizioni; ma alla quiete del testo si oppone magistralmente il contrappunto del corpo, una danza inquieta e perpetua che smentisce continuamente la serenità del racconto, rivelando il tormento oscuro della protagonista che non riesce ad emergere nella parola.
La Ruina rende meravigliosamente il gioco sublime della contraddizione. Si comprende così la scelta, che all’inizio lascia perfino sorpresi, di amplificare la voce, per consentire che l’attore si esprima in un tono sussurrato, reticente, che riproduce anche sonoramente l’effetto di cantilena ipnotica tipico di certe parlate del sud. Preziosa l’integrazione musicale di Gianfranco De Franco, seminascosto sul fondo della scena, che raccorda la narrazione con brevi frammenti sonori che sembrano esprimere, liberi da intenzioni didascaliche, ancora una volta lo scarto d’inquietudine tra il racconto e i fatti. Il pubblico si lascia catturare volentieri - ciò che non avviene di frequente - dal magnetismo della messa in scena e conclude con un applauso intenso e prolungato.
Galleria Toledo - Napoli, 13 febbraio 2007
Visto il
al
Magnolfi
di Prato
(PO)