Inatteso confronto di già morti e morituri, caleidoscopico rincorrersi di forme, suggestioni, fantasmi e voci della memoria amiche: ecco la formula vincente di questo “Don Chisciotte”, la cui geniale e folgorante intuizione amplifica ed illumina la pur pregevole realizzazione scenica; così, mentre la scena, semplice ed evocativamente cartesiana, perde il sembiante fisico e consuetudinario dello spazio a noi prossimo e tangibile per farsi sublime rifrazione dell’altrove, dimensione di un’auspicabile serena eternità di gesti, noi siamo proiettati in una sorta di sortilegio di sensi e di emozioni e nel piccolo e nostrano Castello d’Atlante – rivalsa senza eguali sul tempo che travolge – possiamo riapplaudire due padri sacri dell’arte e del teatro, Chisciotte/ Vittorio Gassman e Sancio/ Carmelo Bene.
Proprio così, e del miracolo non ne daremo conto: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandate!
Un’occasione unica, questo “Don Chisciotte”, un’occasione certo irripetibile per vedere insieme, in un contrappunto dialettico di grandissima qualità estetica e performativa, due scuole di tecnica e di sensibilità apparentemente molto differenti, unite, però, senza alcun dubbio, dallo stesso indefettibile amore per la narrazione, dalla passione per le forme archetipiche ed universali dell’esistenza, dal rispetto di un’arte frutto di impegno, studio, abnegazione e coerenza senza compromessi.
Insomma la natura catottrica dell’epopea di Cervantes diventa pretesto e metafora per tentare di cogliere e restituire l’obnubilante metafisicità della nostra esistenza, a prescindere da qualsiasi percezione dogmatica o razionale delle cose del mondo, un gioco che, come tutti i giochi orditi con serietà e rigore, diventa momento di seria ridiscussione delle convinzioni e di quanto la fallace esperienza quotidiana ci rivela come indiscutibile ed incontestabile; in tale prospettiva, perfino l’esperienza della vita e l’esperienza della morte possono essere messe in crisi, soprattutto grazie ad un principio di imitazione che, ora è il dichiarato gesto d’umiltà funzionale a mostrare quel che di grande si è avuto il dono di poter prendere in prestito, ora è in sé testimonianza viva ed incarnata della precarietà di ogni certezza, di una memoria che, nella sua immanenza e nella sua intrinseca natura imperitura, è l’unica robusta ancora di salvezza in un’epoca di crisi, la nostra, che non sembra aver più nulla di nuovo da dire.
Visto il
16-02-2010
al
Bellini
di Napoli
(NA)