Robert Carsen allestisce Don Giovanni per l'apertura della stagione scaligera e lo ambienta dentro la Scala. Le scene di Michael Levine ripropongono la sala del Piermarini declinata in diverse varianti, ambienti astratti rispetto al plot, che rimandano al gioco del teatro nel teatro. I costumi di Brigitte Reiffenstuel ambientano l'opera ai giorni d'oggi; per la festa in costume scelgono il Settecento e, come stoffa, il velluto del sipario di quel rosso scuro inconfondibile. Le luci di Carsen e Peter Van Praet sono perfette e suggestive nei vari momenti e nelle differenti combinazioni sceniche.
La regia di Carsen è sostanzialmente rispettosa del libretto e non inventa nuove narrazioni come spesso in uso oltr'Alpe. Splendido il lavoro teatrale-attoriale, la cura dei caratteri, i gesti e i movimenti mai scontati ma sempre evocativi di significati profondi e non banali. Una cura registica di altissimo livello che inchioda lo spettatore alla poltrona a seguire il divenire della storia. A cominciare dal colpo di teatro iniziale: Don Giovanni è in platea, nel corridoio centrale, applaude l'ingresso di Barenboim a luci non abbassate; poi, con un guizzo improvviso, salta sul palcoscenico e stacca il sipario che, cadendo a terra, rivela uno specchio che ripete la sala illuminata. Lo specchio indietreggia e Don Giovanni si riflette, come gli spettatori: senza mediazione, senza filtri. Nessuna ipocrisia, nessuna bugia: la vera verità. Senza parole, una verità che solo la musica può raccontare. Una verità che solo uno specchio può esprimere. Dove ciascuno non si può più nascondere, neppure a sé stesso.
Nell'introduzione Leporello ha in mano la giacca che Don Giovanni ha appena lasciato per terra e la scuote nel dire “Oh che caro galantuomo” con fare ironico e sprezzante, poi se la mette nel dire “Voglio fare il galantuomo e non voglio più servir”. La scena ruota e Don Giovanni e Donna Anna sono a letto insieme per un tempo prolungato, evidentemente il rapporto è consenziente e quello che mette in crisi la donna è essere stata sorpresa dal padre “in flagranza”.
Se nell'arrivo di Donna Elvira, accompagnata dalla serva che movimenta due valigie su agili rotelle, è inutile il consultare la cartina geografica di Milano (il perdersi della “poverina” è ben altro), assai efficace è quel camminare rabbiosamente attraversando ogni pannello che le si frappone davanti, trovando sempre la porta da aprire, fino a quella dove la aspetta Don Giovanni, inevitabilmente.
Zerlina e Masetto sono nel giorno del loro matrimonio, accompagnati dai rispettivi genitori (la mamma di Masetto è lusingata della avances che Don Giovanni le riserva) nella chiesa che poi diventa il luogo per il funerale del commendatore. Qui una delle scene più intense per resa teatrale: l'agnizione della realtà tra Don Giovanni, Donna Anna e Don Ottavio. Don Giovanni toglie gli occhiali da sole a Donna Anna pronunciando “Perdonate, bellissima Donn'Anna”, lei gli accarezza il viso con infinita tenerezza, il seduttore si scosta di scatto e Don Ottavio mostra di non capire cosa sta accadendo. Donna Anna non si può più nascondere, si sente in trappola e si trova intrappolata in mezzo alle sedie della chiesa, che scaraventa via per farsi spazio e respirare. Il successivo “Dalla sua pace la mia dipende” vede Don Ottavio solo con la borsa di Donna Anna in mano. Nel finale del primo atto dita puntate e spade sguainate contro Don Giovanni, spade che cadono a terra colpite dal sipario che si chiude. È Don Giovanni a imporre la chiusura del sipario, è lui sempre a dettare moti e tempi dei cambi scena.
Nel secondo atto l'andamento narrativo è diverso, c'è meno azione e maggiore spazio al travestimento, per cui una parte del palcoscenico è sollevata creando l'effetto che Don Giovanni, seduto in proscenio su una seggiolina, stia assistendo a una recita, inscenata a vantaggio della servetta di Donna Elvira che, sedotta anche lei, resta nuda e gli saltella dietro verso le quinte.
Nel recitativo “In quali eccessi, o Numi” Donna Elvira entra dal fondo inquadrata in una fuga di quinte, una soluzione che ci ha ricordato l'Alcina carseniana vista alla Scala; nella seguente aria “Mi tradì quell'alma ingrata” Elvira si accascia a terra, poi si toglie il vestito rosso e resta in sottoveste, come liberandosi da un guscio per rinascere a nuova vita, crisalide che diventa farfalla e lascia l'ingombrante involucro a terra privo di vita.
Tutto il teatro è utilizzato: i cantanti a volte sono i platea o a ridosso delle barcacce; dal palco reale il Commendatore lancia il suo monito. Nel rondò “Non mi dir, bell'idol mio” Donna Anna è sola in scena, Don Ottavio se n'è andato. Il commendatore non è una statua, ma un incubo ben tangibile, tanto che è presente in scena davanti alla bara aperta. Poco risolta la morte del protagonista, che sembra avventarsi volontariamente sulla spada del Commendatore e poi mantenerla saldamente infilzata nel suo petto. Stupefacente il successivo abbassarsi del palco e delle scene, che sembrano inghiottite da un gorgo infernale infinito. Interessante il finale d'opera: i presunti buoni sprofondano negli inferi sotto lo sguardo beffardo di Don Giovanni, tornato in scena, che fuma una sigaretta: “Questo è il fin di chi fa mal! E de' perfidi la morte alla vita è sempre ugual!” Chi può stabilire (e in base a che cosa) chi sia il cattivo e chi i buoni?
Peter Mattei è un Don Giovanni dandy dalla voce sensuale e precisa, morbida e vellutata, lontano dallo stereotipo “animalesco” del personaggio e in linea perfetta con la scelta registica, un raffinato elegantone dal contegno nobile e distaccato che pure emana una irresistibile sensualità: un Don Giovanni aristocratico la cui bulimia della conquista è facilitata dal contegno che esprime grande affidabilità.
Bryn Terfel è opposto a Don Giovanni, un Leporello “servo di scena” in tuta come gli operai addetti alla movimentazione delle scene, un uomo con la barba non fatta e dal comportamento rozzamente immediato, vocalmente perfetto se la dizione dell'italiano fosse maggiormente curata.
Anna Netrebko è un'emozionante Donna Anna, morbidamente sensuale, con un contegno da diva anche in abito corto o in sottoveste; la voce è estesa e salda: mai sentito un legato così morbido unito a tale estensione e luminosità in alto; una voce lirica e sontuosa dal timbro caldo e inconfondibile che stupisce ancora e sempre, emozionando per le colorature perfettamente cesellate, da manuale nel rondò finale.
Barbara Frittoli è una Donna Elvira di grande temperamento che sa adattare il personaggio alle sue corde vocali e alla sua attorialità con grande intelligenza: una donna innamorata e abbandonata, non fragile ma rabbiosa e temperamentosa che non ha perso il gusto per l'ironia e il divertimento, nonostante l'insopportabile delusione in amore (indimenticabile il mimare le donne del catalogo di Leporello per riconoscersi in tutte ed essere lei tutte le donne di cui il seduttore ha bisogno e voglia: la “grassotta” e la “magrotta”, la “grande maestosa” e la “piccina vezzosa”); Donna Elvira è sempre in sottoveste nera oppure indossa i vestiti di Don Giovanni, compresi cappotto, sciarpa e cappello con cui arriva: come dire “o con te oppure il nulla”.
Giuseppe Filianoti è un Don Ottavio ideale per temperamento e fisico, un innamorato da manuale tenero, presente e premuroso la cui voce ha un emozionante e corposo registro grave: il dolore nell'amore sta tutto lì; lontano dallo stereotipato “cavalier servente” quasi asessuato, Filianoti dona spessore al ruolo e una rara credibilità, compensando così qualche intonazione non perfettamente a fuoco.
Kwangchul Youn è un Commendatore granitico nella voce scura, che lancia le sue minacce dal palco reale in modo assai efficace ma pare meno a suo agio quando si muove sul palcoscenico.
Donna Anna e Don Ottavio sono “compensati” da Zerlina e Masetto: i primi eleganti e raffinati, vanno all'opera (con in mano il programma di sala della Scala, ovviamente) e vestono preferibilmente di nero; i secondi vestono preferibilmente di bianco e sono meno raffinati nel vestire e nel comportarsi. Anna Prohaska e Štefan Kocán (rispettivamente Zerlina e Masetto) sono adeguati nella voce e nel fisico: lui scurissimo, quasi terragno in basso; lei agile e sottile.
Ottimo il coro preparato da Bruno Casoni, come anche i mimi e gli addetti alla movimentazione a vista delle scene.
Daniel Barenboim è alla prima inaugurazione da direttore musicale della Scala; affronta in modo personalissimo la partitura con un organico ridotto ma allargando i tempi e calcando la mano sui toni bruniti che conferiscono all'opera un velo di cupezza. Nella musica di Mozart è sempre sotteso il prevalere dell'intelletto: non si nega la complessa, aggrovigliata ambiguità dei sensi, ma si ha ben presente che essa è qualcosa di inevitabilmente inscindibile dalla condizione umana. Il che comporta sì malinconia, ma non disperazione: una malinconica non irrimediabilmente dolorosa, bensì connotata da struggente dolcezza. Nella direzione di Barenboim prevale il peso doloroso per quelle tempeste del cuore. I dettagli sono sempre molto curati e ogni sezione orchestrale dà il massimo, come nel momento con le tre orchestrine in scena, due in proscenio a ranghi essenziali (violino e contrabbasso) a moltiplicare quel suono di precisione illuministica che si combina in echi e sovrapposizioni con la buca e con gli altri musicisti nel fondo del palcoscenico. Ottimo James Vaughan nell'accompagnamento al cembalo.
Teatro esaurito, pubblico rapito e incuriosito dallo spettacolo. Moltissimi applausi per tutti a scena aperta, in particolare per la star Anna Netrebko. Un trionfo nel finale.