Serata di grande richiamo, per questo Don Giovanni che ha fastosamente inaugurato - con il parterre delle grandi occasioni ad esibirsi in eleganti tuxedo e gran luccichio di paillettes - la stagione 2015/2016 del Verdi di Trieste, teatro i cui vertici sono stati recentemente rinnovati. L'anno scorso l'onorevole compito toccava ad un esperimento giovanile - il wagneriano Das Liebesverbot, titolo interessante ma senz'altro misconosciuto - quest'anno invece all'amatissimo capolavoro mozartiano, a beneficio di un pubblico – quello triestino - che non sembra amare troppo le novità. Peraltro, mondanità a parte, questa nuova edizione di Don Giovanni ha raccolto uno schietto e ben meritato successo, sotto ogni aspetto: vuoi per l'accurata direzione di Gianluigi Gelmetti, direttore onorario del Verdi, vuoi per la presenza di un cast non tutto memorabile, però complessivamente equilibrato. Vuoi pure per lo spettacolo in sé, apparso scorrevole ed assai gradevole, dall'assetto decisamente assai tradizionale pur segnando il debutto in Italia del regista ispano-brasiliano Allex Aguilera, una tra le anime del turbolento team de La Fura dels Baus.
Gelmetti affronta la partitura, dal punto di vista sonoro, con una inusuale approfondimento introspettivo; conoscendola ben a fondo, la rappresenta come una solida costruzione architettonica, della quale smussare qualche angolo più scabroso senza farle perdere mai drammaticità. Per questo fine ricerca con molta attenzione un corretto equilibrio tra i diversi piani sonori sui quali essa procede: da una parte gli strumenti -basilare in questo l'apporto dell'ottima Orchestra del Verdi, mai in difetto- e dall'altra le voci, ben accompagnate e sostenute in ogni momento. Nondimeno, il direttore romano pare aver invocato sul cammino più Dioniso che Apollo, vista l'attraente luminosità, l'intenso arco narrativo, la febbrile tensione che sbalzano dalla sua energica concertazione. Nicola Ulivieri affronta per la seconda volta a Trieste la figura di Don Giovanni: la prima era stata nel 2007, con la regia di Daniele Abbado e la bacchetta di Tomas Nétopil. Bravo già allora per la debordante personalità e per la padronanza vocale del ruolo, ora appare ancor più credibile, più approfondito ed intenso, più fantasioso e personale. Luciferino e squisitamente amorale, ma sempre nobile ed elegante; la punta di diamante, indubitabilmente, di tutta la compagnia. Spalla perfetta, gli troviamo accanto Carlo Lepore, il quale tratteggia un servitore maturo d'età e d'esperienza, che riesce subito simpatico per l'indole sorniona ed ammiccante; un Leporello dalla comunicativa spigliatezza, vincente anche per la linea di canto calda, morbida, ricca di sfumature e ben timbrata. Debuttando al Verdi nei panni di Donna Elvira, la giovane soprano Raffaella Lupinacci ci ha convinto solo a metà, perché spicca la solida preparazione tecnica e la bellezza del registro mediano, ma manca un po' il resto: cioè uno stile più personale, e la giusta proporzione nella resa del focoso personaggio. Meglio, in questo, l'aristocratica Donna Anna di Raquel Lojendio, perché il timbro risalta bello e luminoso, solido è il fraseggiare, molto belli i colori e le sfumature, omogenea la gamma con acuti svelti e facili; ma soprattutto perhè ci pare riesca a farne emergere appieno la complessa psicologia. Opaca la prova del tenore Luis Gomes: dopo una partenza traballante, il suo Don Ottavio supera indenne – ma senza onore né gloria - le prove di «Il mio tesoro» e di «Dalla sua pace», ma per il resto abbiamo sentito un canto incorporeo, scarso di fluidità e sopra tutto poco virile. Efficace la Zerlina di Diletta Rizzo Marin per la linea vocale inappuntabile, morbida nel timbro e delicata del fraseggio; però vorremmo da lei qualcosa di più della modesta piccantezza infusa in un personaggio che vorremmo invece tutto soffuso di delicata e carnosa sensualità. Canto gradevole, buon fraseggio e verosimiglianza scenica nel Masetto di Gianpiero Ruggeri; corretto il Commendatore di Andrea Comelli; positiva prova del Coro preparato da Alberto Macrì.
«Senza me costor con tanta boria non avrebbero un bricciolo di sale», commenta acutamente Sir Falstaff, vedendosi circondato da «ogni sorta di gente dozzinale» esultante d'averlo scornato. Lo stesso si potrebbe dire di Don Giovanni: quanto lo attorniano – nobili o popolani che siano - sono persone immerse nella mediocrità, ed escono dall'anonimato solo perché hanno incrociato un individuo totalmente eccezionale, mai sazio d'avventure e di conquiste. Uno che si fa beffe della morale e dei codici d'onore, certo; ma, indubbiamente, anche un radioso faro di vitalità. Uscito lui di scena, svanisce anche il suo fulgore, e sul loro meschino universo cala un malinconico grigiore. E' come se nulla di straordinario fosse veramente successo, e nessun turbine avesse scosso le loro vite: Leporello muove imperturbabile alla ricerca di un altro padrone da servire, tanto uno vale l'altro; Zerlina e Masetto rappacificati se ne vanno placidamente a casa «a cenar in compagnia»; Donna Elvira afferma che spegnerà i propri slanci di passione tra le mura di un chiostro; e quando Donn'Anna annuncia serafica a Don Ottavio «Ti sposo sì, però tra un anno», ci resta la speranza che alla fine non vada a convivere con quell'impalato bellimbusto.
Ma siamo poi sicuri che il dissoluto punito sia effettivamente finito in compagnia di Proserpina e Plutone? Allex Aguilera, artefice di una regia molto attenta ed alquanto ortodossa (per non dire rassicurante) ma mossa nel ritmo, ricca di colore ed intrisa di sapida teatralità, pare pensare il contrario: poiché alla fine lo fa riapparire affacciato ad un balcone del suo palazzo, pronto a strizzarci l'occhio con aria complice mentre amoreggia con l'ennesima sua bella. Un fior fiore di furfante, certo; nondimeno, come sembra confermare Aguilera, pur sempre irresistibilmente attraente. Interessante, per inciso, l'idea di arruolare alcuni artisti di strada - quelli che per qualche spicciolo si mostrano variamente abbigliati immobili per ore ed ore – ad impersonare delle antiche statue: le stesse che, animandosi e scendendo dai loro piedistalli, trascinano Don Giovanni all'Averno. Le scorgiamo al centro del nuovissimo allestimento di Philippine Ordinaire, pensato come un ampio cortile chiuso di sbieco da tre imponenti facciate classiche, mentre la variazione degli spazi è ingegnosamente affidata ad un'alta cancellata e ad altissime altre pareti, agili sezioni mobili che vanno a chiudere quando serve il fronte scenico. I costumi di William Orlandi servono a definire con molto buon gusto una Spagna d'epoca senza mai scadere nella cartolina; le luci di Claudio Schmid sono essenziali, e comunque ogni volta efficaci. Serata aperta con l'Inno di Mameli -qualcuno l'ha anche cantato, la mano al cuore- e chiusa tra lunghi e scroscianti applausi rivolti a tutti gli artisti.