La Elektra di Nikolaus Lehnoff vive in uno spazio chiuso e cupo in cui si aprono finestre cieche e buie ma dove pare che le uniche uscite siano attraverso il sottosuolo, tombe che richiamano continuamente la figura di Agamennone. Elektra vive il presente in funzione del passato, consuma i suoi giorni in attesa di una vendetta che restituisca al padre una dignità che lei sente come perduta dopo l'omicidio. Elektra è sempre in scena, svuotata da sé stessa; spesso indossa il cappotto del padre come una seconda pelle, oppure lo distende a terra come fosse una tomba e ci si inginocchia sopra; è vestita con un abito nero consunto e lacero, quasi una barbona davanti la propria casa; il viso è una maschera bianca, gli occhi cerchiati di nero: l'ossessione interiore che diventa tratto esteriore. Il luogo è la proiezione dei demòni di Elektra, la visualizzazione dei suoi stati mentali, amplificati da una gestualità e da movimenti evocativi e significativi.
L'incontro con la sorella e la madre mostra ancor più la distanza tra loro. Chrysothemis desidera una vita, l'amore, dei figli; si muove con leggerezza, svolazzando in un abito impalpabile coi capelli raccolti. Klytemnestra è una figura grottesca, abito di lustrini e lunga pelliccia rossastra, donna agée dall'aspetto consumato ma che non accetta lo sfiorire del corpo e il passaggio degli anni coi capelli grigi e crespi lunghi sulle spalle a stento trattenuti da una fascia.
Fondamentale l'apporto della scena di Raimund Bauer, un cubo grigio inclinato nella parte posteriore come se stesse sprofondando nel terreno, lo stesso terreno ondulato dove si aprono le buche-tombe; un luogo esterno-interno che diventa luogo mentale. Anche i costumi di Andrea Schmidt-Futterer danno un contributo indispensabile alla riuscita dello spettacolo, che ha le luci piene di atmosfera di Douane Schuler.
Il finale lascia senza fiato: si solleva la parete di fondo a rivelare un interno piastrellato ma scrostato e cadente, schizzato di sangue; il corpo di Klytemnestra oscilla a testa in giù appeso a un gancio da macellaio sotto le luci al neon, Oreste si aggira come uno spetto, ormai irretito dalla spirale di vendetta che non concede uscita. I tre fratelli restano soli in scena: dal pavimento fioriscono piante nere, lingue di lugubre fuoco e dall'erinnica forza. Il male genera male, la vendetta genera assassini senza interruzione. Una regia, questa di Lehnoff, intelligente ed attenta ai dettagli.
L'annunciato Fabio Luisi è stato sostituito sul podio da Stefan Soltesz che ha diretto l'orchestra con mano sicura e grande resa emotiva.
Giusto il cast. Eva Johansson è una intensa Elektra anche dal punto di vista attoriale; la voce è piena ed espressiva, tornisce i versi straordinari di Hofmannsthal e li restituisce agli spettatori in modo vibrante nel costruire una donna sola, infelice, sfiorita e trasandata, legata in modo indissolubile al passato e che sente la vendetta come unica ragione d'essere. Felicity Palmer rende in modo molto personale Klytemnestra e il suo essere desolatamente circuita dalle ancelle. Melanie Diener è una convincente Chrysothemis dall'acuto pulito e sicuro. Miranda Keys è una virago Sorvegliante, inguainata in un abito di pelle e accompagnata dalle due ancelle con scarpe dalla zeppa inquietante. Intenso l'Oreste di Alejandro Marco-Buhrmester, affiancato dal valido Precettore Derek Welton e contrapposto all'Egisto smargiasso di Wolfgang Schmidt. Appropriati gli altri nelle numerose parti di contorno. Il coro è stato preparato da Gea Garatti Ansini. Molto suggestive le figure femminili velate di nero con l'abito ricoperto di frange che le rendono un po' avvoltoi.
Diversi posti vuoti a teatro per uno degli spettacoli più belli dell'anno, coprodotto insieme al festival di Salisburgo. Fra pochi giorni verrà presentata la nuova, attesa stagione dell'Opera di Roma.