Diritto alla vita, diritto alla morte. Una morte con dignità nel rispetto della propria libertà. Da sempre le società, che si sono succedute nel corso dei secoli, si sono confrontate con un argomento che ha assunto le caratteristiche di un tabù difficilmente violabile. Se ne parla molto però, vedi il caso di Eluana Englaro (nel bene e nel male), ma è più un tentativo di esorcizzare la paura della morte, più che un tentativo (spesso maldestro) di infrangere la cultura tesa ad evitare l'argomento. Ognuno di noi vede la morte come una proiezione esterna da “collocare” il più lontano dalla nostra sfera vitale. Non sempre ci riusciamo. La malattia e la sofferenza del morente è preferibile gestirla in situazione neutrali come un ospedale, una lungodegenza, una stanza asettica, dove queste persone, spesso, vengono lasciate sole, abbandonate al loro destino, dopo aver vissuto un travaglio in cui c'è spazio solo per la medicina e bandita qualsiasi forma di umanità e di solidarietà per chi è accanto al letto del proprio caro. Mentiamo sulla verità della malattia a chi ci chiede solo di essere sinceri. Facciamo i conti con la morte dell'altro che ci costringe a interrogarci sulla nostra. Un lungo preambolo necessario per parlare del tema della morte portato in scena, con la loro consueta forza emotiva e scenica, dal gruppo Babilonia Teatri, impegnati nel scandagliare e scompigliare, che loro stessi affermano così: “Oggi la morte non esiste. Non se ne parla. Non la si affronta, ne la si nomina. È un tabù....”. La chiave di lettura è immediatamente decodificabile. Un enorme crocefisso ligneo posto al centro della scena scarna, dove sullo sfondo appare un frigorifero che svelerà solo alla fine un macabro contenuto. Il Cristianesimo è decisamente preso in causa. Icona religiosa che incombe sopra i due protagonisti, inginocchiati nell'intento di pulire il pavimento con un loro indumento. Gesto eclatante intrapreso con foga e atteggiamento al limite del servilismo. Ma c'è anche un'altra lettura, forse più consona: pulire per togliere un peccato, lavare qualcosa di sporco, di repellente, al limite della propria forza fisica. Dove non manca l'energia è nella recitazione antiespressiva. Le parole escono a ritmo serrato, ma non devono arrivare ai registri emotivi, bensì scagliate nello spazio come sassi contro un vetro. Vanno ad infrangere il conformismo imperante che ti impedisce di dire certe cose e di rifiutarle. Si parla di accanimento terapeutico, di eutanasia, di scelte estreme, di strumenti per la funzione dei parametri vitali. Sangue, flebo, sacche nutrizionali, sonde. No alla commiserazione, agli orpelli funebri dove ci si rifugia per salvare la propria coscienza. Dal biancore dell'impassibile frigorifero escono due teste di animali. Un bue e un asino che vanno a comporre un presepio che nella sua tragica rappresentazione annulla qualunque idea di nascita e di inno alla vita. Uno sparo di pistola ripetuto due volte. Un suono sinistro mortale che scuote e fa rabbrividire. Una corsa frenetica che finisce sbattendo sulle pareti. Come se Ilaria Dalle Donne ed Enrico Castellani cercassero via di fuga dal quel luogo di morte. Fuga o avvicinamento.. La stella cometa di cartone entra alla fine tra le mani di Luca Scotton, ma non indica la via, si smarrisce avvitandosi su stessa. Effetti che contribuiscono a creare un senso di spaesamento palpabile. The end solo nel titolo. Un lavoro in progress sul quale si dovrà ritornare e compattare il tessuto drammaturgico. Come sempre i Babilonia seminano interrogativi ai quali, prima o poi, tutti ci dobbiamo porre.