Per famiglie
FA'AFAFINE. MI CHIAMO ALEX E SONO UN DINOSAURO

Me stesso, non un gioco

Me stesso, non un gioco

La magia perpetua del teatro, il fiato sospeso, quello stesso fiato che si condivide con gli attori sul palco, questa volta si fa sensazione concreta, commozione forse, per questo allestimento non voluto e frainteso, questo spettacolo che ha dovuto esistere in modo dedicato e speciale, nonostante i no, le polemiche, le firme raccolte di chi, osteggiandolo, forse neppure lo conosce veramente.

Ci piace dire che il sipario si apre e si vede un bambino – un attore bravissimo nei panni di un bambino – un essere umano appartenente all'infanzia che disperatamente rivendica il suo diritto a esistere, a prescindere dalla classificazione in generi maschio o femmina.

Un essere umano, Alex, che riorganizza e cataloga il suo mondo interiore: i pupazzi, o meglio i personaggi - da Mister Pig alla bambola Kartika, senza scordare Natalja, fascinosa modella bielorussa – i genitori, il compagno Elliott, appena arrivato dall'Irlanda, che incarna per Alex la tensione a un amore ideale, assoluto e, soprattutto, la speranza di poter condividere un'alterità, una differenza rispetto alla massa confusa degli altri bambini.

Fuori da questo universo così sapientemente organizzato le cose non sono così facili: i genitori, Susan e David sembrano distratti, o lontani, capaci come sono di guardare il mondo di Alex e dialogare con lui solo dal buco della serratura. Gli insegnanti non sono da meno ed Elliott, il tanto desiderato compagno di scuola, pare lamentare il disagio di frequentare la stessa scuola di chi gli invia biglietti a forma di cuore.

Dallo spazio speciale della sua stanza, Alex recepisce tutto questo, parla, ragiona, si muove, esprime in una corporeità efficace quanto la sua comunicazione verbale tutto il desiderio di essere accettato.
Lo soccorre, come accade ai bambini, il gioco: il gioco seriamente e pedagogicamente inteso come strumento per esplorare il mondo. Forse per questo, Alex, nel disperato tentativo di trovare “abiti adatti” per andare a scuola (maschili, femminili, comunque rappresentativi di lui) decide di partire con la sua astronave e arrivare fino in Polinesia, a Samoa, dove i mitici esseri umani A'Fafine, né maschi né femmine, ma ugualmente rispettati dalla comunità, potranno venirgli in soccorso.
Qui un'amara scoperta lo attende: la tanto sognata Polinesia non è il paradiso che aspettava, ma una distesa ostile di sabbia e nulla. In fondo si può essere se stessi solo nel proprio posto, solo dove ci si sente a casa. Per quello ha senso combattere, e non per altro.
Così, a un bambino disilluso e smarrito, arrivano (finalmente) in soccorso i genitori, che prendono consapevolezza ciascuno delle proprie personali stranezze e finiscono per valorizzare il figlio.

Con un messaggio di speranza si chiude quindi la storia di questo bambino così speciale da sentirsi un dinosauro: una storia delicata e delicatamente raccontata, con parole semplici, pulite, con un linguaggio adatto ai piccoli come ai più grandi.

L'uso interessante di proiezioni filmiche abbinato alla recitazione sul palco, oltre ad accentuare il carattere di “storia di confine” di questa produzione, rappresenta una felice scelta registica che conferma il valore dell'intera messinscena. Bravissimo e giustamente emozionante il protagonista, felici tutti in sala. Di aver voluto anche ciò che pareva non voluto, forse, semplicemente perché, ancora una volta, misconosciuto e frainteso.

Visto il 16-03-2017
al Della Tosse di Genova (GE)