La prima volta di Verdi al Farnese è di per sé un’emozione che ampiamente giustifica l’operazione. Se poi l’opera è Falstaff, che pare pensata per questi spazi tardo-rinascimentali, il cerchio si chiude.
Per le scene Jamie Vartan usa le stesse assi di legno del teatro e le luci di Simon Corder illuminano di arancio la sala al punto che le serliane dell’ovale e le capriate del soffitto divengono parte integrante della finzione scenica. Adatta all’epoca e al luogo l’idea di rendere Windson con lenzuola stese dove sono disegnate case a graticcio dai ripidi tetti (lenzuola che poi simuleranno le acque del fiume con onde in successione). I costumi, sempre di Jamie Vartan, situano l’opera all’inizio del Seicento, negli anni in cui il teatro veniva progettato ed inaugurato (1618). Le stoffe sono ricche ma discrete nei colori, una sobrietà che è eleganza e raffinatezza di dettagli; il paggio di Falstaff veste una rumorosa armatura anche per stare in albergo.
La regia di Stephen Medcalf non cerca novità né propone attualizzazioni o dissacrazioni: il luogo non lo consentirebbe. Ambienta perfettamente lo svolgersi delle scene sul palcoscenico senza sipario, utilizzando pochi oggetti, come nella commedia dell’arte: un letto, bauli, lenzuola disegnate, uccelli di legno appesi a lunghe pertiche, una parete di legno. Il fondale riporta la mappa dell’epoca di Windsor in bianco per la maggior parte del tempo, in nero (come al negativo) per il bosco del terz’atto. Durante l’ingresso del pubblico alcuni figuranti puliscono il palco con scope di saggina e portano bauli e casse da viaggio che vengono accatastati nella camera del protagonista. Gesti e movimenti sono perfetti, misurati ed efficaci: la commedia si dipana lasciandosi seguire agevolmente e comprensibilmente, senza cadute nel greve o nel ridanciano.
Andrea Battistoni ha mano sicura e gesto preciso, notevolissimi stante la giovane età; è attento a mettere insieme e tenere sotto controllo tutte le sezioni orchestrali e garantire l’appiombo con le voci. Però alcune finezze si perdono: mancano quei dettagli di furbesca ironia e le chiuse sono enfatiche e tirate via in fretta, come se la commedia gli imponesse ritmi forzati a scapito del cesello che invece avevamo notato in altre sue direzioni.
Ambrogio Maestri è un perfetto Falstaff, a cominciare dal fisico imponente che ironicamente mostra senza vestiti a completare un umanissimo personaggio; il timbro bello è valorizzato da emissione curatissima e assai musicale, l’estensione gli consente acuti sicuri e centri armonici, i chiaroscuri definiscono il personaggio e gli accenti espressivi non cadono mai nel grottesco. Molto bravo Luca Salsi: il suo Ford ha il piglio del marito tradito e l’ardire dell’uomo di comando, chiaroscurato nella voce e dal fraseggio impeccabile, giusto per ampiezza, facilità e solidità di linea. Meno ha convinto la Alice di Tamara Alexeeva: il timbro non è seducente e mostra limiti nella parte alta della tessitura e nella legatura del verso. Sorprendente la Nannetta di Barbara Bargnesi per bellezza di voce, scolpitura del verso e liricità dell’interpretazione nei passaggi più intimi. Non brillano invece la Meg di Daniela Pini e la Quickly di Romina Tomasoni. Il Fenton di Antonio Gandia non ha accenti sentimentali particolarmente intensi e gli acuti nel duetto con Nannetta sono al limite. Con loro il Pistola di Mattia Denti, il Bardolfo di Patrizio Saudelli, il Cajus di Luca Casalin. Il coro è stato ottimamente preparato da Martino Faggiani.
Pubblico numeroso, successo pieno. Se qualche limite di acustica ha il Farnese, ciò si riduce a un effetto di riverbero ampiamente compensato dalla suggestione del luogo. Negli intervalli è possibile visitare la mostra “Giovanni Battista Guadagnini (1711-1786), un liutaio alla corte di don Filippo Borbone” curata da Davide Gasparotto e Andrea Zarnè ed esposta per pochi giorni nell’adiacente Galleria Nazionale. Nel libretto di sala trova spazio la Biblioteca Palatina, uno dei gioielli di Parma.