Gli spettacoli di Eimuntas Nekrošius pongono sempre lo spettatore di fronte a una pletora di sensazioni e domande: le prime spesso non sufficientemente decodificate razionalmente, le seconde spesso senza risposta. I testi su cui il regista lavora vengono puntualmente smontati, analizzati nel dettaglio, de-strutturati e ri-strutturati secondo i suoi codici, posti in essere dai protagonisti e da numerosi mimi, ballerini, servi di scena, comparse. Il lavoro preparatorio del lituano è lungo, rigorosissimo: e il risultato sempre intensissimo.
In questo Faust di Gounod c'è il valore aggiunto della precedente messa in scena del lavoro teatrale di Goethe, quindi l'avere già penetrato le pieghe del testo poetico, enucleandone quelli che secondo lui sono gli snodi essenziali. È vero, qui c'è il vincolo ineludibile della musica, che Nekrošius rispetta. Ma, come sempre, c'è un'idea altissima di teatro e, soprattutto, un'idea forte che impronta di sé tutta la rappresentazione: la responsabilità individuale delle proprie scelte e azioni (homo artifex fortunae suae). È Faust l'uomo che cerca. Ed è fin troppo facile imputare i propri insuccessi e insoddisfazioni agli altri, prendersela con gli altri, uomini o diavoli che essi siano.
La scenografia, opera del figlio Marius, contribuisce in modo rilevantissimo al risultato finale. Il sipario si alza su una doppia navata fortemente strombata, archi di legno chiaro in rapida (e ripida) successione che rimandano anche al cantiere, a una casa terremotata, al ventre di una balena, a un luogo comunque non “urbano” in senso tradizionale. Luogo-non luogo di grande suggestione, complici le luci di Marco Filibeck che creano un effetto interno-esterno consono alla storia e mutano continuamente la prospettiva delle arcate in vertiginosa successione. Una specie di caleidoscopio che rende i personaggi enormi (se sono sul fondo) oppure minuscoli (se sono in proscenio), con il conseguente mutare del rapporto uomo-spazio.
Gli scioperi hanno compromesso questo Faust, tre recite saltate e tre in scena con i coristi in abiti “civili”; l'ultima in cartellone, quella a cui abbiamo assistito, completa di tutto, compresi i costumi di Nadezda Gultiajeva, che completano l'idea registica, esaltandone l'idea un po' naive e fiabesca, in modo da far risaltare i gesti ripetuti ed enfatizzati, la ritualità ieratica e pagana, la simbologia complessa e a volte astrusa.
L'incipit è bellissimo: il sipario si apre sulle due navate vuote, a terra libri aperti, il vento volta le pagine, fasci di luce rossi poi bianchi dall'alto li illuminano, esaltando il valore della parola scritta, del sapere. Al centro Faust, seduto di spalle sopra un masso, al bivio: la scelta, la crisi (l'etimologia greca di “crisi” è, appunto, “scelta”). Faust cerca febbrilmente fra le pagine, i movimenti impediti da un cappotto-corazza, rigido e ingombrante, mentre due uomini-uccelli si aggirano con fare inquietante. Faust è l'uomo che cerca, l'uomo che cerca e non trova, l'uomo che si pone domande. L'uomo che cerca e alfine trova. Trova Méphistophélès, colui che disprezza i libri (e il sapere, la consapevolezza razionale e informata), perchè possono vanificare la sua esistenza. Faust si volta e trova-evoca Méphistophélès, che ha in mano una lunga asta, di quelle che si usano per il salto in alto: il diavolo (dal greco diaballein) non procede in modo lineare, non procede lungo un cammino “umano”.
L'apparizione: alcune donne in nero, come delle prefiche, ricamano a punto a croce su un grande telaio circolare che poi svela Marguerite, la veste azzurra, i capelli lunghi e rossi, l'incedere sognante e stralunato, una donna stupefatta: come chi è capitato per caso sulla terra, suo malgrado. L'aumonier della gonna ha il ricamo a punto croce.
La firma del patto: Méphistophélès fascia la mano di Faust con le garze bianche.
La cultura spazzata via: i mimi chiudono, impilano e portano via i libri: essi non servono più. Il cappotto-corazza di Faust viene strappato via e rivela, sotto, un abito con le rondini azzurre disegnate.
Il giardino è risolto con due arbusti fioriti e due panchine: in questa scena simmetrica tutto è doppio e speculare. Siébel, personaggio riuscitissimo, ha come oggetto-feticcio una valigia-cassa di legno piena di margherite ed è vistosamente claudicante, tendendo a rimanersene in disparte, a osservare la vita scorrergli davanti senza farne parte fino in fondo.
Tronchi di scale per la piazza e un'efficace movimento delle masse. La brezza leggera evocata dal coro nel second'atto è resa con pezzi di specchio che riflettono la luce, come onde del mare, come aria impalpabile e al tempo stesso materica.
Faust e Marguerite (replicati da Méphistophélès e Marthe) si cercano, si desiderano, si sfuggono: amore, pudore, paura. Accarezzare una parete con le spalle al muro, sfiorando le dita dell'altro con le proprie. Sedie trascinate da una parte all'altra. Intorno figure sinistre, lugubri, a coppie: nani e nane, esseri deformi (gobbe vistose, braccia come ali di pipistrello, epe smisurate). Quelle figure inquietanti che si affacciano alle porte e dagli angoli per ricordarci che, nell'illusione dell'idillio, la realtà è diversa e il destino segnato.
Nel terzo atto cala una parete bianca a creare due interni di dimensioni più contenute ed intime, parete che nel quarto diventa a graticcio. Una culla contesa tra Marguerite e i loschi figuri finisce in cima a un palo, come un nido di cicogna, irraggiungibile. È avvenuta la trasformazione di Marguerite: ora è mora, ha una cuffia sui capelli, un abito più corto ma come i precedenti col motivo del ricamo a punto croce, una veste ora povera e sfilacciata. La chiesa è evocata da due enormi croci nere appoggiate a terra. Il duello Faust-Valentin, efficacissimo, affidato ai mimi. Silouette di cavalli sbucano dai lati. Il finale d'atto è concentrato sui coristi che, in proscenio, rivoltano i cappotti, rosso sangue e, meccanicamente, li lasciano cadere a terra, li riprendono, li lasciano cadere, li riprendono. Poltiglia di carne e sangue, a riprendere quei gomiti grondanti sangue dei soldati.
Tagliata la notte di Valpurga, nel quinto atto la scena è rovesciata, ora in primo piano lo spazio a forma di “V” che si apre tra le navate. Marguerite lavora al ricamo tirando ago e filo coi denti, una corda pende dall'alto.
Méphistophélès cerca di fermare le quinte nere che si chiudono; Marguerite sa, ha capito: spegne con un soffio la candela che una bambina reca in mano.
Stéphane Denève dirige l'orchestra in modo poco spumeggiante ma con tempi precisi e un raccordo ottimale tra palco e buca; la mano generica è compensata dal bel suono dell'orchestra e dall'organo, che è tornato a suonare dopo un lungo restauro.
Fernando Portari sostituisce l'indisposto Marcello Giordani; il suo Faust è tormentato, sincero e credibile, controllato nella voce. Roberto Scandiuzzi è un Mefistofele giocoso e clownesco, seducente e mellifluo, di impronta signorilmente spagnoleggiante; vocalmente ha rivelato una gamma di colori che si stemperano nel registro basso. Irina Lungu è una Marguerite ottima dal punto di vista attoriale e vocale, un personaggio tutto interiore, commovente e fragile, reso con limpidezza e cura. Molto brava Nino Surguladze (Siébel); molto bravo Dalibor Jenis (Valentin); adeguati la Marthe-sorellastra di Syulvie Brunet e il Wagner col gomitolo di lana di Olivier Lallouette.
Molti applausi per tutti; vivo successo di pubblico, che tuttavia si è assottigliato dopo gli intervalli.
La lettura del comunicato dei lavoratori di protesta contro il decreto Bondi ha suscitato fischi in platea: molti urlavano “andate a lavorare”. Ma i lavoratori della Scala stavano lavorando e la protesta è per poter continuare a farlo. La protesta non può esaurirsi, perchè il governo non ha cambiato nulla. Ma forse quella protesta deve cercare altre forme, che tutelino anche il pubblico (non solo con il rimborso del biglietto o del rateo di abbonamento).