Gaia Saitta, attrice e regista, e Julie Anne Stanzak, danzatrice e coreografa hanno presentato in prima mondiale a Equilibrio Festival della nuova danza, uno spettacolo di teatro danza col quale hanno voluto esplorare, tramite il linguaggio fisico, uno spazio di ricerca comune. Una ricerca basata sulla (ri)scoperta della vulnerabilità scenica, come viene definita nel programma di sala, di un gruppo di attori e attrici che approdano alla danza come esplorazione del proprio linguaggio del corpo. Un gruppo di attrici e attori di diversa nazionalità, lingua e percorso artistico, che ha dato luce al collettivo IfHuman che ha lavorato per due anni al progetto Fear and Desire.
Un progetto sviluppato in tre fasi di ricerca grazie a due residenze, una di due settimane in Belgio, nell'ottobre del 2011, grazie al Théatre Nazional di Bruxelles, e un'altra di tre settimane ancora a Bruxelles, al Rosas Performing Space, resa possibile dal fatto che lo spettacolo sarebbe stato programmato nell'edizione 2013 del Festival Equilibrio.
Le due autrici hanno sottolineato non solo come senza l'appoggio di queste strutture lo spettacolo non sarebbe mai nato ma che tutti gli artisti coinvolti hanno collaborato al progetto gratuitamente.
Una sorta di volontariato del quale c'è da stupirsi non tanto come pratica, cui purtroppo un po' tutte le compagnie oggi sono costrette se vogliono fare ricerca, ma del fatto che nel programma di sala venga presentata come un valore, senza denunciarne l'aspetto de-professionalizzante che rende la ricerca artistica, e nella fattispecie teatral-coreografica, quasi un hobby e non un lavoro professionale, che va sempre remunerato e che deve dare, a chi lo fa, di che vivere dignitosamente.
L'accettazione supina dello status quo, oltre a sorprendere per l'ingenuità con cui viene ammessa, getta una luce un po' sinistra su tutta l'operazione che rischia di rimanere nell'alveo del volontariato.
Purtroppo i risultati raggiunti in questa prima mondiale, dove è chiaro che i margini di messa a punto sono ancora possibili, e auspicabili, è alquanto modesta.
Un progetto sviluppato in tre fasi di ricerca grazie a due residenze, una di due settimane in Belgio, nell'ottobre del 2011, grazie al Théatre Nazional di Bruxelles, e un'altra di tre settimane ancora a Bruxelles, al Rosas Performing Space, resa possibile dal fatto che lo spettacolo sarebbe stato programmato nell'edizione 2013 del Festival Equilibrio.
Le due autrici hanno sottolineato non solo come senza l'appoggio di queste strutture lo spettacolo non sarebbe mai nato ma che tutti gli artisti coinvolti hanno collaborato al progetto gratuitamente.
Una sorta di volontariato del quale c'è da stupirsi non tanto come pratica, cui purtroppo un po' tutte le compagnie oggi sono costrette se vogliono fare ricerca, ma del fatto che nel programma di sala venga presentata come un valore, senza denunciarne l'aspetto de-professionalizzante che rende la ricerca artistica, e nella fattispecie teatral-coreografica, quasi un hobby e non un lavoro professionale, che va sempre remunerato e che deve dare, a chi lo fa, di che vivere dignitosamente.
L'accettazione supina dello status quo, oltre a sorprendere per l'ingenuità con cui viene ammessa, getta una luce un po' sinistra su tutta l'operazione che rischia di rimanere nell'alveo del volontariato.
Purtroppo i risultati raggiunti in questa prima mondiale, dove è chiaro che i margini di messa a punto sono ancora possibili, e auspicabili, è alquanto modesta.
Per esorcizzare la paura e il desiderio del titolo con cui Saitta misura la distanza fra Me e me, constatando come Tutto quello che vorrei assomiglia pericolosamente a tutto quello per cui mi sento inadeguata, impreparata, perduta la regista allestisce un progetto drammaturgico fumoso e sui generis.
La generosità proclamata con cui i e le performer mettono del proprio vissuto in un progetto di ricerca nel quale ballano il proprio pudore, il proprio tremore (...) per cogliere la vulnerabilità dell'atto artistico e di chi lo compie si risolve sul palco in un florilegio dei topoi del teatro danza, compresa una veloce ricognizione di alcuni performer in platea a distribuire baci a fior di labbra a chi dà loro il permesso, tradendo, con la richiesta formale del permesso di baciare, la matrice borghese dell'operazione che uccide la spontaneità del gesto e la verità della performance che dovrebbe essere in grado di metabolizzare in fieri anche la reazione negativa del pubblico.
Tra generici proclami di volontà di pace o di felicità e descrizioni proustiane di attimi vissuti con la famiglia nell'infanzia, o nella descrizione di velleità professionali avute da bambini e bambine (da piccolo volevo avere la barba...) il biografismo di Fear and Desire risulta finto e affettato, senza una vera ironia in grado di metterne in discussione cliché e comportamenti presentati come spontanei e gioiosi.
Soprattutto manca in questo lavoro di esposizione e racconto del vissuto personale la componente professionale quella di attori e di attrici per cui in scena non ci sono perfomer ma personaggi che non sono danzatori e danzatrici ma solamente uomini e donne. Dove l'occasione della danza è solo una banale metafora della vita umana Mi è sembrato il modo più autentico di rappresentare la nostra vita, in cui ci troviamo a danzare, ma non conosciamo mai bene i passi…
Il limite principale della retorica da cui Fear and Desire non riesce ad affrancarsi, prima ancora che nel linguaggio coreutico e nella drammaturgia, sta tutto nell'immaginario collettivo portato sul palco che presenta uomini e donne come eterni ragazzi e ragazze, ognuno solo e sola nella propria monade esistenziale, dove la ricerca degli affetti è quella un po' sessista del rapporto tra uomini e donne dove i primi sono irretiti e sedotti e le seconde un po' civette e dove una sprovvedutezza generale all'esistenza, alla vita, viene ammannita come joie de vivre.
Fear and Desire scivola addosso, con qualche lungaggine e tempo morto (che si può perdonare data la prima mondiale), lasciando il pubblico contento perchè conferma tutti i luoghi comuni sulle donne e sugli uomini e sui loro rapporti interpersonali (rigorosamente eterosessisti l'omosessualità femminile affiora per qualche secondo ma è solamente un gioco esplorativo) senza insinuare dubbio alcuno, o mostrare al pubblico un altro da sé che possa rimandare a un oltre che, pure, altri e altre che fanno questo lavoro e con la stessa difficoltà, si ostinano a voler vedere, cercandolo e, spesso, trovandolo.
In Fear and Desire di questo oltre non ci pare ci sia traccia.
La generosità proclamata con cui i e le performer mettono del proprio vissuto in un progetto di ricerca nel quale ballano il proprio pudore, il proprio tremore (...) per cogliere la vulnerabilità dell'atto artistico e di chi lo compie si risolve sul palco in un florilegio dei topoi del teatro danza, compresa una veloce ricognizione di alcuni performer in platea a distribuire baci a fior di labbra a chi dà loro il permesso, tradendo, con la richiesta formale del permesso di baciare, la matrice borghese dell'operazione che uccide la spontaneità del gesto e la verità della performance che dovrebbe essere in grado di metabolizzare in fieri anche la reazione negativa del pubblico.
Tra generici proclami di volontà di pace o di felicità e descrizioni proustiane di attimi vissuti con la famiglia nell'infanzia, o nella descrizione di velleità professionali avute da bambini e bambine (da piccolo volevo avere la barba...) il biografismo di Fear and Desire risulta finto e affettato, senza una vera ironia in grado di metterne in discussione cliché e comportamenti presentati come spontanei e gioiosi.
Soprattutto manca in questo lavoro di esposizione e racconto del vissuto personale la componente professionale quella di attori e di attrici per cui in scena non ci sono perfomer ma personaggi che non sono danzatori e danzatrici ma solamente uomini e donne. Dove l'occasione della danza è solo una banale metafora della vita umana Mi è sembrato il modo più autentico di rappresentare la nostra vita, in cui ci troviamo a danzare, ma non conosciamo mai bene i passi…
Il limite principale della retorica da cui Fear and Desire non riesce ad affrancarsi, prima ancora che nel linguaggio coreutico e nella drammaturgia, sta tutto nell'immaginario collettivo portato sul palco che presenta uomini e donne come eterni ragazzi e ragazze, ognuno solo e sola nella propria monade esistenziale, dove la ricerca degli affetti è quella un po' sessista del rapporto tra uomini e donne dove i primi sono irretiti e sedotti e le seconde un po' civette e dove una sprovvedutezza generale all'esistenza, alla vita, viene ammannita come joie de vivre.
Fear and Desire scivola addosso, con qualche lungaggine e tempo morto (che si può perdonare data la prima mondiale), lasciando il pubblico contento perchè conferma tutti i luoghi comuni sulle donne e sugli uomini e sui loro rapporti interpersonali (rigorosamente eterosessisti l'omosessualità femminile affiora per qualche secondo ma è solamente un gioco esplorativo) senza insinuare dubbio alcuno, o mostrare al pubblico un altro da sé che possa rimandare a un oltre che, pure, altri e altre che fanno questo lavoro e con la stessa difficoltà, si ostinano a voler vedere, cercandolo e, spesso, trovandolo.
In Fear and Desire di questo oltre non ci pare ci sia traccia.
Visto il
07-02-2013
al
Auditorium Parco della Musica - Sala Santa Cecilia
di Roma
(RM)