Dopo l'integrale sinfonica (28 settembre – 06 ottobre) Gianandrea Noseda e l'orchestra del Regio proseguono l'immersione nella musica di Beethoven con il Fidelio che ha aperto la stagione lirica di Torino, dopo un intenso mese di balletti con la prestigiosa compagnia del teatro Mariiskij di San Pietroburgo. Il Regio si è segnalato negli anni per la qualità degli allestimenti e l'intelligenza delle scelte. Una conferma è avere aperto le celebrazioni per i 150 anni dell'unità d'Italia con I vespri siciliani e averle idealmente chiuse con questo nuovo Fidelio: lo spettacolo di Mario Martone è bellissimo, la direzione musicale di Noseda emozionante, il cast perfetto. Dunque un appuntamento da non perdere.
La scena fissa di Sergio Tramonti presenta un cortile di prigione grigio: grigi i muri altissimi (senza fine), grigio il pavimento dove si spazzano foglie autunnali con una scopa di saggina. Nel cortile, una casetta di legno e una passerella sospesa da un lato all'altro, a separare la scena dalla sala. In proscenio una grata chiude una buia prigione, sempre visibile anche a sipario chiuso. Lo spazio pare, a prima vista, una fabbrica abbandonata, relitto di archeologia industriale, ma subito gli spettatori si rendono conto essere prigione, anche per la presenza, al centro, di una torretta di avvistamento con tanto di altoparlanti, chiarificando l'uso reclusivo. Dopo l'intervallo restano solo passerelle sospese nel buio e nel vuoto, a rendere dominante la cella di Florestan. Nel finale il buio diviene luce, il nero diventa bianco e il chiuso un aperto senza confini.
I costumi di Ursula Patzak sono storici senza legami a un'epoca precisa e hanno dettagli curatissimi: significativa la scelta di vestire i prigionieri come cittadini normali. Fondamentali nella resa le luci perfette di Nicolas Bovey, suggestive soprattutto nel secondo atto, emozionanti nel rendere evidenti e matericamente corpose le mani di Florestan aggrappate alle sbarre.
La regia di Martone è filologica e curata nei minimi dettagli per rendere ogni personaggio nella sua chiara identità e interiorità e per delineare i rapporti interpersonali. Martone scava nelle pieghe del libretto, trova soluzioni interpretative e sceniche di grande teatralità e significato: il dualismo luce/buio diviene segno identificativo di libertà negata/libertà concessa. Nel primo atto i prigionieri appaiono come anime vinte, umiliate e offese, ferite anche solo dalla luce, che diviene accecante rendendo trasparenti le pareti, tanto che Leonore si scherma gli occhi con un velo nero. I prigionieri indossano abiti normali, non divise né vesti logore e rattoppate: sono evidentemente cittadini, persone normali rinchiuse per questioni ideologiche o politiche.
All'inizio del secondo atto, per un lungo momento Florestan è invisibile nel buio, solo le mani che stringono le sbarre ne svelano la presenza; la voce pare più incisiva provenendo dal buio. Splendida la scena finale, che da sola vale lo spettacolo: la fossa scavata nella nera terra per Florestan viene ricoperta e sopra vengono ammucchiate le catene dei prigionieri liberati dalle donne: mogli, madri, figlie, amanti dei carcerati che con gesti di rabbia e sollievo (ma con lentezza) liberano gli uomini e scagliano le catene sul mucchio, una quantità sempre maggiore che si impone al centro della scena.
Gianandrea Noseda rende la partitura in modo esemplare, sia nei momenti sinfonici sia in quelli lirici sia in quelli didascalici, mantenendo al massimo la tensione narrativa (fondamentale avere sforbiciato i parlati in modo da rendere tutto più compatto). L'orchestra è dentro lo spettacolo anche dal punto di vista scenotecnico, vista la posizione in proscenio della cella di Florestan, e segue il direttore con grande partecipazione.
Ottimo il cast. Ricarda Merberth è una Leonore sontuosa con timbro caldo e di bel colore, mai aggressiva ma sempre invece morbida e attenta agli impasti vocali anche quando sale all'acuto; la linea è ferma e il fraseggio incisivo e ben legato e rende perfettamente una donna spinta dall'ideale supremo di stare vicino al suo uomo. Ian Storey è un Florestan commovente, un uomo pacificato che si è mantenuto fedele alla propria coscienza e accetta il morire come fine inevitabile per aver seguito l'ideale della vita; si è apprezzata in particolare la brunitura del timbro, che ha conferito all'interpretazione un'aura di nobile, autunnale pateticità. Lucio Gallo è Pizarro, un governatore antipatico al solo apparire, insopportabile quando se ne scoprono le malefatte, un personaggio reso con aristocratica superbia, non in modo muscolare ma sottile e insinuante, dunque pericolosissimo. Franz Hawlata è un Rocco umanissimo, la cui voce ampia e robusta tratteggia in modo superlativo il personaggio. Talia Or è una Marzelline dalla chioma riccia e fulva, piena di spirito ed energia ma priva di smancerie, la cui voce ha timbro luminoso e sale facilmente all'acuto. Alexander Kaimbacher tratteggia un Joaquino zoppo e indifeso, giusto vocalmente. Con loro Robert Holzer (Don Ferrando), Matthew Pena (primo prigioniero) e Vladimir Jurlin (secondo prigioniero). Il coro con tutta evidenza sente la partecipazione allo spettacolo ed è stato ben preparato da Claudio Fenoglio.
Teatro gremito, pubblico attentissimo, moltissimi applausi. Speriamo che altri enti lirici italiani prenotino lo spettacolo, che necessariamente deve girare nei teatri della penisola.