Reggio Emila, Teatro Valli, “Fidelio” di Ludwig van Beethoven
L'UMANA VERITA': GIOIA E LIBERTA' SONO (MUSICALMENTE) POSSIBILI
Claudio Abbado, diversamente dalla maggior parte dei direttori, si è riservato per la maturità “opere chiave”, per il Boris ci sono voluti vent’anni, ha affrontato Parsifal e Tristano sessantenne, il Flauto Magico tre anni fa, e solo ora, per il suo bisogno interiore di “sedimentare“ e maturare, dopo aver eseguito tutto Beethoven, debutta a 75 anni in Fidelio a Reggio Emilia, prima tappa di un allestimento-evento che verrà riproposto a Madrid, Baden Baden, Ferrara e Modena, per approdare nel 2010 a Lucerna ed Aix en –Provence.
Particolare l’atmosfera che si respirava nella cittadina emiliana che per due sere si è trasformata in una sorta di Salisburgo, animata dal gotha della critica internazionale, abbadiani itineranti e cosmopoliti, loggionisti scaligeri in trasferta. La superba direzione di Abbado non ha tradito la grande attesa ponendo una misura di perfezione difficilmente raggiungibile.
Amo Fidelio, mi commuove nel profondo, non la trovo così verbosa e vocalmente mal riuscita, ma è tale l’attesa per certi momenti musicali che uno ha in testa in forma sublimata che difficilmente l’ascolto appaga l’attesa. In questo caso l’esecuzione non solo è stata ideale per trasparenza, equilibrio e bellezza formale, ma ha portato un senso di freschezza, energia e slancio vitale che ha rigenerato Fidelio, rendendo palpabile l’anelare beethoveniano verso il trionfo della luce, della giustizia, dell’amore.
Già dall’ouverture si respira una grande forza sinfonica che racchiude e collega i dettagli con grande armonia; i suoni dei singoli strumenti, morbidi e bellissimi, s’inseriscono con naturalezza in un tutto che ricorda per calma e dolcezza la pastorale. Perfetti i tempi, le gradazioni di suono, la transizione fra le scene e i cambi di registro risolti in modo fluido e naturale, un singspiel che diventa magistrale sinfonia.
Il quartetto inizia sottovoce, discreto, con tenerezza, e rende l’autentico sentire dei quattro personaggi colti nelle loro trepidazioni. Il canto, se pur nella progressiva espansione dovuta all’innesto delle varie voci, mantiene un‘aura d’intimo raccoglimento, come se i personaggi non osassero per pudore esprimere i propri sentimenti ( gioia, paura, delusione) e cogliamo, oltre la perfezione formale del canone, l’umana verità.
Stupendo il coro dei prigionieri, un canto antieroico depurato da scorie enfatiche, che trasmette l’oppressione di uomini impauriti come animali o mistici perseguitati. Un lamento drammatico e trattenuto, ma anche uno sfogo che si traduce nell’arrotare con forza la r di “Rettung”, la salvezza, oppure una preghiera intima e soffocata il “leise” sottovoce.
Fedele a Beethoven, Claudio Abbado trasmette un messaggio positivo e confortante: forza e dolcezza pervadono la direzione anche nei momenti più bui, come se fossero inseriti in un disegno di progressione iniziatica verso la “luce” che ricorda l’altro singspiel per eccellenza, il Flauto magico. Gioia e libertà sono possibili.
Il giovane regista Chris Kraus non sembra invece credere all’ideale e all’utopia e si concentra sulla rappresentazione triste e oggettiva della vita quotidiana all’interno della prigione, una lettura monodirezionale che non approfondisce né il comico né il sublime. La bella scena in bianco e nero di Maurizio Balò è dominata da un’ imponente ghigliottina intorno alla quale si concentra il movimento scenico, la scena è chiusa da un’alta parete semicircolare ad alveare divisa in scranni che ricreano le celle dei prigionieri. In ogni cella c’è un busto con la testa incappucciata, sono i prigionieri legati senza occhi e senza vita che ricordano in una visione seriale i metafisici manichini di De Chirico. E’ Leonora a ridare identità e luce togliendo con dolcezza i cappucci ai prigionieri ammanettati che si muovono con gesti dolorosi e convulsi mentre la parete si alza per fare passare una lama di luce lasciando intravedere gambe di carcerieri in una ronda che ricorda i campi di concentramento di tanti film.
Pizzarro è un tiranno malato, che si aggira con crudeltà in sedia a rotelle o stampelle, la deformità fisica amplifica la cattiveria della figura espressionista e inquietante che evoca il male della tirannide e della Storia.
Alla fine la parete si squarcia in due inondando la scena e la platea di luce accecante, sugli spalti si vedono le ghigliottine, irrompe la folla agitando vessilli con movimenti che ricordano le immagini della rivoluzione francese, Pizzarro viene frettolosamente ghigliottinato in presenza di Don Ferrando trasformato in Cardinale senza evidente ragione. Le masse liberate vorrebbero irrompere per partecipare al trionfo, ma vengono brutalmente trattenute, mentre Florestano e Leonora inneggiano alla gioia facendo giravolte sulla sedia a rotelle. Un finale ambiguo in contraddizione con la musica: è davvero finita la tirannide?
La compagnia di canto, non sempre all’altezza nelle arie individuali, ha dimostrato un ottimo movimento scenico ed è risultata più convincente nei momenti d’insieme ben inserendosi all’interno della concertazione. Anja Kampe è un’ottima attrice, dalla voce lirica non particolarmente estesa, ma di timbro gradevole. Nonostante qualche difficoltà nell’acuto, offre un’interpretazione di Leonora sentita e coinvolgente. Decisamente deludente il Florestano di Clifton Forbis, voce sfuocata, malferma, a tratti strozzata; un vero peccato perché l’introduzione orchestrale alla sua grande aria così ricca di pathos avrebbe meritato molto di più. Alberto Dohmen si distingue per la violenta caratterizzazione di un Pizzaro isterico e inquieto e, oltre che per il canto incisivo, colpisce per il parlato, drammatico e scandito, degno di un attore di prosa. Giorgio Surian è un Rocco corretto, ma vocalmente non imponente, un uomo fragile e stanco paralizzata dal terrore nei confronti del potere. Grande rilievo scenico ed eccellente a livello vocale la Marzelline di Julia Kleiter che rende con realismo misto a fastidio la delusione. Jörg Schneider è un Jaquino di buona routine, dalla voce leggera.
La Mahler Chamber Orchestra, l’altra star della serata, si è confermata orchestra di altissimo livello, dal suono morbido, sfumato ed equilibrato in assoluta sintonia con le indicazioni del maestro.
Anche il coro, in cui sono confluiti il coro Arnold Schönberg e il coro della Comunitad di Madrid, ha offerto sotto la guida di Erwin Ortner una prestazione di grandissima intensità e precisione regalando pagine di piena emozione.
Grande commozione durante gli applausi nel vedere il maestro dalla figura evanescente in disparte sul palcoscenico per far avanzare, come l’onda di una marea, tutti i giovani orchestrali “artefici” del successo. I giovani musicisti raccolgono con gioia i fiori lanciati dalla galleria e li tirano alla platea che, capito il gioco, li ritira indietro in una grande festa collettiva.
Visto a Reggio Emilia, teatro Valli, l'8 aprile 2008
Ilaria Bellini
Visto il
al
Municipale Romolo Valli
di Reggio Emilia
(RE)