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FURIOSO ORLANDO (BALLATA IN ARIOSTESCHE RIME PER UN CAVALIER NARRANTE)

L'empasse della contemporaneità

L'empasse della contemporaneità

Su una scena spoglia, disseminata di alcuni elementi che crediamo prima decorativi e che poi, durante lo spettacolo, si rivelano dei funzionanti attrezzi da rumorista, in uno spazio ridisegnato continuamente dalle luci espressive di Luca Barbati, si muovono una dama e un cavalier cantanti che, tra versi ariosteschi, e non, ci raccontano alcuni elementi della sterminata, e impossibile da riassumere, trama dell'Orlando Furioso.

Stefano Accorsi è un giovine declamatore che ci  propone quei versi antichi col gusto di oggi, a far lui da contrappunto Nina Savary che commenta, glossa, sottolinea, produce rumori manovrando l'attrezzeria di scena, suona una chitarra, un pianoforte, canta (ci prova anche Accorsi con risultati più modesti).

Furioso Orlando è un esperimento azzardato e fondamentalmente riuscito che sa intrattenere il pubblico, che gli tributa alla fine degli applausi entusiasti, davvero sinceri, anche se siamo alla prima del debutto nazionale.

Applausi meritati per il lavoro di memorizzazione di Accorsi, per lo sforzo di Savary nel recitare in una lingua non sua (è francofona), riuscendo a rendere disinvolto anche il forte accento con cui parla l'italiano. Merito anche per la scenografia evocativa che usa oggetti costruiti sull'immaginario collettivo delle macchine leonardesche andando però ben oltre la loro funzione esornativa. Merito per il gioco tra attore/personaggio, che commenta salace gli aspetti più esplicitamente sessuali del poema, e attrice/personaggio, la quale, novella femminista, tra le altre cose, si chiede, sempre in versi, come mai si spoglino solo le donne e non anche qualche giovinetto. Merito, ancora, per il lavoro di riscrittura dei versi ariosteschi con contaminazioni alte (la Comedia dantesca) e basse (la cultura pop contemporanea).

E proprio qui ci sembra stia anche il limite di questa operazione.

La drammaturgia scalfisce appena la superficie del verso ariostesco senza provare nemmeno a riproporre in qualche modo, sebbene con gli strumenti della cultura (di massa) contemporanea, il portato che quei versi avevano nel 1500 per il pubblico cui si rivolgevano. Baliani si preoccupa più di intrattenere il suo spettatore  che renderlo partecipe dell'operazione culturale che sta per lui imbastendo. In questo, sia chiaro, non c'è alcunché di sbagliato. Però così facendo la drammaturgia invece di fare da tramite tra due mondi altrimenti poco comunicanti, intraprende la strada della rettificazione, livellando come può, assieme alle asperità della lingua di allora, che Ariosto aveva ridisegnato seguendo i precetti linguistici del Bembo, quelle di un immaginario collettivo per noi spettatori di oggi, alieno, non solo quello della cultura di corte della prima metà del cinquecento ma anche quello del mondo cavalleresco che Ariosto usava per fare un discorso altro che a noi rimane del tutto indecifrabile.

Il testo non permette di distinguere le ottave dell'Ariosto (che Baliani ha girovoltato) da quelle scritte ex novo rendendo questa contaminatio troppo intrusiva  che finisce per banalizzare il verso ariostesco.
La declamazione dei versi, che Accorsi proferisce con una recitazione che si attesta sempre su un unico registro declamatorio, poggia molto più sull'assonanza della rima baciata che sulle ferree regole toniche degli endecasillabi in cui sono scritti, dando l'impressione che il verso originale non sia sonoro o cantabile (nel senso di destinato alla declamazione) di per sé.
Il risultato è un intrattenimento efficace che manca però di quel senso della storia, intesa come passato dal quale emerge la contemporaneità, che non sa immaginarsi uno ieri che non sia a sua immagine e somiglianza.

Un limite, questo, che non risiede nell'operazione di Baliani, ma che è proprio una caratteristica del nostro presente, perso in un moderno gioco intertestuale nel quale un verso cinquecentesco e uno slogan pubblicitario hanno lo stesso spessore. Una modernità che cerca in una fraintesa radice comune una continuità storica col passato che viene così reso un eterno presente nel quale solo lo scarto tecnologico (le macchine leonardesche) o lessicale sembra differenziare l'ora dall'allora, nel nome di una metafisica stabilità che garantisca la certezza di un futuro (e di un presente) la cui mancanza non avviene a causa della crisi, morale, politica o economica che sia, ma proprio per la perduta capacità di capire il passato, di interessarci alla storia, di saperli insomma guardare non solo in termini di simile ma anche di dissimile o di irriducibilmente diverso.

E di questa empasse lo spettacolo di Baliani sembra essere proprio la prima vittima.
 

Visto il 16-02-2012
al Ambra Jovinelli di Roma (RM)