Andrea Scanzi incontrò Gaber per la prima volta nel 1991 durante un suo spettacolo all’Anfiteatro romano di Fiesole e proprio in quell’occasione, affascinato dalla levatura del personaggio, riuscì a scattare quella che forse è la foto più famosa del maestro, immortalato durante l’esecuzione di una delle sue celebri canzoni, con quel misto di concentrazione e velata sofferenza sul volto che lo rendeva così umano e così vero ai nostri occhi.
Lo spettacolo, prodotto dalla Fondazione Gaber e ideato dallo stesso Scanzi, è un monologo-dialogo in cui il giornalista e scrittore guida il suo pubblico, con l’ausilio di fotografie e video, alla scoperta del mondo interiore di quello che fu un intellettuale vero, lucido e indipendente.
Si parte dagli anni del debutto in Rai per approdare poi velocemente all’incontro determinante con Luporini e con il teatro, che fu la vera casa di Gaber. Ci sono gli anni della passione politica e della disillusione, i momenti di denuncia dei mali di un paese di cui egli non si sente di far parte completamente, gli sfoghi di rabbia contro mode e luoghi comuni, il fuoco della satira che scuote un uomo privo di certezze, ma proprio per questo libero di prendersela con tutti, ivi compreso il mito di Aldo Moro a poca distanza dalla sua morte.
Ed ecco che in sala riecheggiano le note di Quando è moda è moda, Io se fossi Dio e Qualcuno era comunista mentre Scanzi ci conduce per mano alla scoperta di un artista a 360 gradi la cui caratteristica di fondo è stata sempre quella di sapersi costantemente reinventare, spinto da un irrefrenabile desiderio di andare oltre. Un incontro-spettacolo profondo e significativo, condotto con ironia e icastica lucidità, privo di intendimenti stucchevolmente agiografici o celebrativi, ma ricco di passione e coinvolgimento personale che ci consente, a dieci anni esatti dalla sua dipartita, di ripensare ad un uomo con la U maiuscola e al messaggio anticonvenzionale di libertà che egli ha voluto lasciarci sebbene talvolta “facciamo più schifo che spavento”.