GABER SE FOSSE GABER

L'intenzione del volo tra speranza e scoramento

L'intenzione del volo tra speranza e scoramento

Quando si va a teatro per assistere ad un monologo sulla vita artistica di un personaggio che si conosce soltanto marginalmente, possono accadere due cose. Ci si può irrimediabilmente annoiare, oppure, come è capitato assistendo all’incontro-spettacolo scritto e interpretato dal giornalista Andrea Scanzi, Gaber se fosse Gaber, prodotto da Fondazione Gaber e Promo Music, si può uscire dal teatro con la netta sensazione di aver ricevuto un regalo.

Sì, perché è innegabile che si resti affascinati dai contenuti, ma quello che colpisce chi si approccia per la prima volta a Giorgio Gaber con cognizione è anche, e soprattutto, l’essenza del personaggio. Si viene rapiti imprescindibilmente dalla sua mimica, dalle movenze di quella figura allampanata, con le braccia sempre aperte e in movimento, dall’espressione sognante che sembra disegnata con un sorriso triste, dalle parole pronunciate ora con beffarda e tagliente ironia ora con tristezza e disillusione. Per chi non lo conosceva, per limiti d’età, o perché, comunque, su youtube avrebbe cercato solamente Lo shampoo o al massimo Libertà è partecipazione,  vien da pensare che assistere ad uno spettacolo di Giorgio Gaber dal vivo, a quei tempi, doveva essere semplicemente illuminante.

Lo sa bene Andrea Scanzi ,ed è per questo che, come specifica lui stesso poco dopo essere apparso sulla scena, per conoscere a fondo Giorgio Gaber bisogna lasciar parlare lui. Non deve essere stato facile, però, concentrare e portare in rassegna la trentennale e variegata carriera di Gaber in un’ora e mezzo di spettacolo. Scanzi da abile comunicatore ci riesce benissimo. Il suo assolo penetrante è incisivo ma anche sobrio e pulito, per quanto la sua passione per Il signor G. tracimi da ogni pausa.

Il giornalista presenta agli spettatori il protagonista del suo monologo attraverso filmati come il Tic, l’Odore, l’America. Racconta alla platea di come Gaber, negli anni ’70, abbia coraggiosamente abbandonato il patinato mondo delle canzonette e della tv per dedicarsi con Sandro Luporini esclusivamente al teatro canzone, di cui è stato iniziatore insieme al suo coautore. E di come sia andato oltre e sia passato dall’essere il Gaber di Goganga, di Cerutti Gino, della Torpedo blu “che faceva popi popi”, al Gaber dall’approccio problematico, che inseguiva il dubbio e non l’applauso facile, che non riusciva ad appartenere, che aveva il coraggio di essere scomodo, di essere brutale.

I suoi spettacoli erano un mix irresistibile di fervore politico, rabbia in musica e anche di risate. Scanzi continua il suo racconto e continua a far parlare il Gaber di Buttare lì qualcosa, di Polli d’allevamento e Quando è moda è moda, di  Io se Fossi Dio. Il Gaber delle invettive coraggiose, quello che se la prendeva con tutti, soprattutto con la politica, che è schifosa e fa male alla pelle, tanto temerario da prendersela addirittura con Aldo Moro, assassinato da poco. Scanzi ci riporta agli anni a cavallo tra la fine dei ’70 e i primi ’80, gli anni della contestata tournèe di De Andrè con la Pfm e di Bob Dylan. Prima del black out sulla politica nei testi di Gaber e Luporini, che torneranno a parlarne soltanto nel 1991, con quelli che Scanzi definisce i dieci minuti di monologo più belli dei due autori: Qualcuno era comunista. Un testo intenso, ironico, struggente, emozionante. Un crescendo inarrestabile, di rabbia e disillusione, un’interpretazione commovente.

Gli applausi della registrazione dell’epoca si sovrappongono a quelli del parterre del teatro e ti vien da pensare a come non siamo mai cambiati e forse mai cambieremo. Con Gaber ci si incazza per osmosi, dice Scanzi, ed è vero. Perché tocca corde reali, ancora scoperte, ancora attuali. Nel suo pessimismo, però, uno slancio utopico alla fine di ogni canzone. Una feroce convinzione che la speranza ci fosse sempre. Gaber non ha mai smesso di essere un gabbiano ipotetico, perché l’intenzione del volo è ciò che rende l’uomo vero, libero e vivo.  C’è una fine per tutto e non è detto sia la morte, dice alla fine del monologo Il suicidio, regalandoci così una  frase rassicurante, come l’accappatoio azzurro di Conte, mentre fuori piove ed è un mondo freddo.

Buttava lì qualcosa e andava via Giorgio Gaber. E Scanzi con questo spettacolo, giunto alla centotrentesima replica in cinque anni, fa lo stesso. Consegna il ricordo di Giorgio Gaber a chi non ha potuto conoscerlo per limiti d’età o a chi lo ricorda solo in maniera parziale. Un ricordo quanto più aderente al vero, che non scade mai nella facile retorica o nella commemorazione. Neanche quando, soltanto alla fine, Scanzi pone la sua firma, raccontando della scintilla da cui è nato tutto, quelle foto che soltanto diciassettenne scattò a Gaber all’Anfiteatro di Fiesole, quando uscì da quel teatro come se un treno lo avesse appena preso in pieno. Un po’ la stessa sensazione che prova lo spettatore di Gaber se fosse Gaber.

Visto il 15-03-2016
al Umberto Giordano di Foggia (FG)