Alla fine è una questione di scarpe. Viene da pensare questo, allo spettatore in sala, vedendo quel palco, nudo, completamente coperto di scarpe e l’attrice, la bravissima Caroline Baglioni, che è anche regista e autrice, con due scarpe spaiate, una maschile e una femminile, che ne determinano l’andatura strascicata e claudicante.
E’ una questione, appunto, di cose, oggetti, disassortiti che Caroline dispone diversamente sul palco, ben rappresentando quel processo continuo di riorganizzazione interna che segna il tormento del disagio psichico.
E non a caso si dice in inglese if I were in your shoes, “se fossi nelle tue scarpe”, anziché il nostrano “se fossi nei tuoi panni”, come a dire che per capire veramente qualcuno occorre fare un po’ del suo cammino, coi suoi piedi.
Questo fa magistralmente Caroline Baglioni, con un lavoro drammaturgico e attoriale giustamente premiatissimo, ricostruendo la vicenda di uno di quegli uomini facilmente destinato all’oblio degli affetti e della storia: lo zio con problemi maniaco-depressivi, Gianni, appunto, che dà il titolo alla pièce, che, nel pieno degli anni ’80, nell’Italia democristiana post Basaglia, vive un suo personale tentativo di normalità tormentata e infelice, tra lo sguardo diffidente della gente, il lavoro, le corse spericolate in auto.
Gianni, in realtà, rivela, nell’incarnazione di sua nipote, la saggezza limpida dei folli, di coloro che intuiscono che l’incongruità, il vuoto, di una vita crudelmente orientata a miti prestazionali (il super uomo, il super manager) e poi ridotta a languere nella noia di una passeggiata sul corso, la domenica.
Tutte queste verità sono così limpide, così chiare nella sua testa che in lui è sempre vivo il desiderio di raccontare, raccontarsi, sentirsi vivo tramite i nastri che registra e che fortunosamente oggi ci consegnano la sua memoria.
La sua narrazione, l’epos interno che riesce ad arrivare fino a noi, è quello di una storia come tante, una depressione andata male e deragliata, che conosce negli anni successivi gli echi di complicazioni psicotiche, deliri persecutori, ogni sorta di fantasmi interni ed esterni. Gianni ogni tanto parla, bisbiglia, grida e Caroline ha il merito di restituircelo proprio così, come dev’essere stato, in un crescendo costante di pathos che trova il suo culmine nella commovente descrizione di Bombagiò, l’eroe immaginario che decide di andarsene nello spazio e nella fine, casuale, banale di Gianni in un incidente stradale, ancora una volta di rimando (capiamo finalmente) al tema delle scarpe.
Il pubblico partecipa, applaude, si commuove, forse ammira, oltre al talento, il coraggio di questa ragazza, esile ma potente sul palco, che sfonda il muro sottile di silenzio e pudore in cui da sempre sono avvolte le storie familiari di disagio psichiatrico in Italia.
Caroline Baglioni raccoglie tutta questa storia su di sé, sulle sue parole e sul suo corpo, restituendo un affresco vivo, espressivo e profondamente d’impatto. Va dritta alla nostra emotività, pur sapendo parlare alle nostre intelligenze, ricordandoci, come avrebbe detto Franco Basaglia, che con la malattia mentale l’amore non basta, ma sicuramente è un punto di partenza necessario.