Anno consacrato al grande Shakespeare, questo 2016, e quindi in ogni circuito lirico noblesse oblige: bisogna celebrarne l'arte con una qualche produzione. Melodrammi ispirati dai versi del Bardo ve ne sono invero assai, ma se ci limitiamo a spulciare tra quanti hanno superato indenni il tempo, non c'è da far salti di gioia. The Fairy Queen di Purcell - il soggetto è quello del Sogno di una notte di mezza estate – è tra i più antichi cimenti shakespiriani, e ci incanta ancora con la sua tenera grazia. Al contrario, la popolarità che ebbe Lustige Weiber vov Windsor di Otto Nicolai è oggi circoscritta in sola terra tedesca; e recuperare la barbugliante Das Liebesverbot del giovane Wagner – tratta da Misura per misura - è impresa che richiede una certa temerarietà, come quella dimostrata solo un paio d'anni fa dal Teatro Verdi di Trieste. In compenso Otello, Macbeth, Falstaff del nostro Verdi appaiono titoli comprensibilmente tuttora amatissimi, e miracoli d'intatta longevità. Resta però il rimpianto per quel Re Lear che Verdi vagheggiò a lungo, senza mai realizzarlo: soggetto formidabile, per un impulso drammaturgico come il suo. Ci pensarono Stefano Gobatti e Antonio Cagnoni, a finir di secolo: ma il Lear del primo è sparito dalle scene senza lasciar rimpianti, il secondo poi non le vide mai. L'Otello di Rossini, vero campionario belcantistico d'inizio '800, oggi appare a molti un po' datato – e sicuramente non facile da interpretare - ma non datato certo come Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj, messo in disparte da I Capuleti e i Montecchi di Bellini; partitura che però per oltre un secolo venne eseguita con il terzo atto sostituito da quello del compositore marchigiano. La Francia ci ha dato la neoclassica Imogénes di Rudolph Kreutzer, tratta dal Cimbelino, e l'Hamlet di Ambroise Thomas (che meritatamente gira ancora, mentre nessuno ovviamente rammenta l'Amleto di Franco Faccio presentato tre anni prima, nel 1865), così come l'eleganza raffinata di Béatrice et Bénédict (da Molto rumore per nulla) di Berlioz: il quale si cimentò anch'esso nell'immortale epos di Roméo et Juliette, benché la sua sobria versione perda il confronto – almeno in popolarità e numero di esecuzioni - con l'omonimo e sfarzoso lavoro di Gounod.
Ma sto divagando troppo. Veniamo all'immortale mito degli sventurati amanti veronesi, Giulietta e Romeo: mito che nel libretto di Felice Romani – destinato in prima battuta a Vaccaj, gran maestro di canto all'italiana, e poi mutato nome e qualche verso passato pari pari a Bellini – volendo essere obiettivi si riallaccia qualcosa in più alle fonti cinquecentesche di Luigi Da Porto e Matteo Bandello recuperate dalla recente tragedia di Luigi Scevola Giulietta e Romeo (1818), e qualcosa in meno all'imperitura rivisitazione del Bardo. Opera piena di effusione lirica, I Capuleti e i Montecchi, al confine ed in difficile equilibrio tra le nuove istanze romantiche e la pesante eredità belcantistica rossiniana, e quindi di per sé non facile da decifrare.
Ed è in una notturna esecuzione tra le mura del Castello di Bassano, nel teatro all'aperto intitolato a Tito Gobbi, bassanese illustre - siamo nel bel mezzo del cartellone di OperaEstate Festival 2016 - che I Capuleti e i Montecchi hanno ripreso vita per noi. Spettacolo ed esecuzione erano affidati a forze fresche, ma consapevoli del compito e, come vedremo subito, nel complesso affidabili.
Paolo Giani (incarico da factotum: regista, scenografo, costumista) ha impostato un'essenziale scena unica, racchiusa tra grandi quinte nere, che vede a destra un grande torso virile marmoreo, ed a sinistra la sua testa riversa; sullo sfondo, la ruvida verticalità delle mura di cinta. Reminiscenza classica che andrebbe bene per un buon numero di opere, da Alceste di Gluck alla Vestale di Spontini, e quindi con qualche forzatura buona anche qui; a rievocare l'ambientazione medievale soccorrono per fortuna gli spalti del maniero ezzeliniano che ci ospita. Indovinati i costumi, fatti di un antico elegantemente reinterpretato; mossa ed attenta la sua regia, che non divaga né distrae lo spettatore, lasciando sopra tutto al canto il compito di raccontare una storia peraltro già ben conosciuta.
Sul podio dell'Orchestra di Padova e del Veneto – compagine non sempre cristallina, in verità, nei frequenti interventi concertanti – vigilava Andrea Albertin: ha svolto un lavoro apprezzabile, concertando buon dinamismo e sufficente intesa con gli interpreti. Fatta la tara alla posizione innaturale degli strumenti, posti per necessità logistica dietro il palco con il risultato di offrire un suono talora nebuloso ed evanescente – già con il coro in scena, figuriamoci nei concertati a far da barriera – abbiamo apprezzato correttezza e scrupolosità, ma sopra tutto la convinta musicalità della sua direzione: che è di per sé già un bel risultato.
Il soprano russo Ekaterina Sadovnikova dispiega una coerente e ben formata linea vocale, benchè un po' esile, esibisce un timbro vellutato e piacevole, si cala bene nelle adolescenziali vesti di Giulietta. Peccato solo che le colorature appaiono un pochino meccaniche, ed il fraseggio quasi impersonale, raffreddando un po' il personaggio nel siderale momento di «Oh, quante volte». La figura di Romeo invece ci sta tutta, nelle corde vocali del mezzosoprano Annalisa Stroppa: anche qui scopriamo un timbro seducente, un accento convinto ed impetuoso ma sempre equilibrato e senza eccessi, come in «Se Romeo t'uccise un figlio», acuti dipanati senza apparente difficoltà. Ma in più, anche la scioltezza ed il calore naturali del fraseggio. Sia come sia, i loro confronti a due filano lisci senza inciampi, offrendo all'ascolto momenti di trepidanti emozioni: ed il pubblico se n'è accorto, tributando loro più che meritati applausi. Tebaldo era Giordano Lucà: voce indiscutibilmente bella ed interessante, ma non sempre amministrata a perfezione come stava a dimostrare l'impetuosa aria «E' serbata a questo acciaro», che pareva buttata giù come viene viene, senza la dovuta considerazione stilistica. Non travolgente ma funzionale all'impegno il Lorenzo di Matteo d'Ippolito, corretto nell'insieme il Coppelio di Danel De Vicente. Cosa che non si può certo dire del vociferante e sgrammaticato Coro Città di Padova diretto da Dino Zambello.
(foto di Giancarlo Ceccon)