I Capuleti e i Montecchi, opera composta da Bellini fra il gennaio e il marzo 1830 su libretto di Felice Romani, si ricollegano idealmente a quel filone letterario italiano, all’interno del quale spicca la famosa novella di Matteo Bandello da cui trasse ispirazione anche William Shakespeare, che nel corso dei secoli ha riproposto a più riprese le vicende dei due giovani innamorati veronesi, ostacolati nella loro passione dalle profonde rivalità che dilaniavano le rispettive famiglie d’origine.
Proprio sul principio del conflitto fra clan familiari si basa la regia di Sam Brown il quale sposta l’azione da Verona alla Romania, ambientando la vicenda agli inizi del Novecento all’interno di una comunità Rom chiusa, violenta, prevaricatrice e aggressiva nei confronti degli avversari. L’idea di per sé potrebbe sembrare efficace, ma la sua realizzazione concreta ci ha lasciato perplessi. La scena è fissa, si apre all’interno di una sala costruita provvisoriamente dagli zingari per celebrare un addio al celibato: al centro una lunga tavolata (che successivamente simboleggerà la tomba di Giulietta), sul fondo la gigantesca immagine di due fanciulli zigani dai volti infelici in abiti nuziali, in alto l’incombente carcassa sanguinante di un cervo che ruota lentamente su se stessa. La volontà provocatoria di Sam Brown è evidente, ma appare spesso legata a un puro desiderio di suscitare stupore, non supportato da una solida filosofia di fondo che permetta poi, nel corso della rappresentazione, di risolvere adeguatamente le tensioni e le problematiche proposte. Si parte dallo stupro di gruppo perpetrato dai convitati, già sulle note della sinfonia iniziale, nei confronti di una non ben determinata giovane che finisce poi per essere sgozzata da Tebaldo, si passa quindi a un successivo, quanto mai poco chiaro, tentativo di Romeo di violentare Giulietta dopo averla legata, per giungere quindi, prima della definitiva calata di sipario, all’accoltellamento di Capellio da parte di Tebaldo. Questa esasperata ricerca di realismo o di espressionismo visivo che intride di violenza tutta la vicenda si riverbera ovviamente anche sugli scontri che avvengono fra i due clan, assimilabili piuttosto a lotte fra bande di periferia armate di oggetti contundenti di ogni tipo, in cui però, a nostro modesto avviso, la debolezza della regia si vede tutta, nella mancanza di capacità di governare il movimento delle masse cha appare caotico e piuttosto simile a quello di un film western d’appendice.
Decisamente più interessante la lettura musicale data da Christian Capocaccia alla direzione dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali estremamente corretta in quell’asciuttezza e stringatezza del gesto che ha evitato ogni scivolamento verso toni eccessivamente languidi i quali sarebbero parsi certo troppo discordanti con la regia.
Complessivamente più che discreto il cast, tutto di giovani, che si sono trovati a cimentarsi, va detto, con una partitura semplice solo in apparenza. Pregevole la Giulietta di Damiana Mizzi che ha mostrato di possedere un buon controllo dell’emissione unitamente ad una certa capacità di tenere la scena. Interessante anche il Romeo di Florentina Soare, forse più a suo agio nelle note acute che in quelle gravi, ma dalla vocalità piacevole e ricca di colori. Sufficienti i comprimari maschili: nel ruolo di Capellio Alessandro Spina, in quello di Tebaldo Fabrizio Paesano, in quello di Lorenzo Pasquale Amato. Un po’ sotto tono rispetto al solito anche il coro del Circuito Lirico Lombardo.
Teatro con qualche posto vuoto, alcuni dissensi verso la regia a scena aperta, applausi finali ridotti all’osso, un po’ più generosi solo nei confronti delle due protagoniste.