Prosa
I RUSTEGHI

Un inno alla tradizione

Un inno alla tradizione

Quante volte, nel dilagare spasmodico di allestimenti innovativi, abbiamo invocato il ritorno alle origini, alla purezza del testo. Un inno alla tradizione è stato l'allestimento de I Rusteghi come dettato da Giuseppe Emiliani: una fedeltà goldoniana assoluta, spinta al richiuderla su se stessa.


L'impianto scenografico fisso (di Federico Cautero), con un siparietto e pochi altri elementi scorrevoli, ha correttamente delineato la dimora di Lunardo, un ambiente soffocato dal vecchiume che tiene anacronisticamente ancorati gli uomini, "rusteghi" dalla mentalità arretrata. Le donne, per Goldoni e per Emiliani, rappresentano una macchia di colore, una folata di freschezza spirata a spazzare via il polverume, a rinnovare le idee, a dettare nuove regole per il consorzio umano. Concetto tradotto scenicamente grazie alla parete di fondo della casa, spoglia e incolore, che ha lasciato gradatamente intravedere il mondo esterno fino all'essersi aperta su una Venezia ridondante di palazzi affacciati sull'acqua, benché deserta, come se la città non fosse ancora stata contagiata dal cambiamento sociale in atto nell'abitazione del mercante. Una ventata di modernità, di vivacità, di vita, suggerita da Massimilano Forza nella colonna sonora, unico impulso "in avanti" di questa macchina teatrale, il cui propellente è stato la grande energia verbale goldoniana.

La Compagnia si è rivelata incredibilmente affiatata, ma la bellezza dell'omogeneità ha incespicato nelle insidie dell'uniformità, per il parco uso del movimento e per l'assenza di controscene. L'espressività, scevra da toni enfatici e da "birignao", ha rinverdito la spontaneità dell'inflessione veneta e il candore dell'ironia goldoniana, strappando risate. Scoppiettante nello sfolgorante abito rosso fuoco (costumi "doc" di Stefano Nicolao) Stefania Felicioli, che ha saputo guarnire di sfaccettature la multiforme personalità di Felicia, donna proiettata al futuro; Alessandro Albertin era il di lei frastornato marito Canciano. Giancarlo Previati era l'ottuso nevrotico despota Lunardo e Cecilia La Monaca la sua seconda moglie Margarita, la tipica "vorrei ma non oso". Alberto Fasoli vestiva i panni dell'intransigente Signor Maurizio e Michele Maccagno quelli del Conte Riccardo, di vedute aperte. Maria Grazia Mandruzzato impersonava la saggia Marina e Piergiorgio Fasolo lo sconcertato consorte Simon. Infine i due promessi sposi: Margherita Mannino, intraprendente Lucietta e Francesco Wolf, Felippetto spiritosamente impacciato.  

"Alla base della commedia - si legge nelle note di regia - c'è una sorta di allegra e sicura provocazione del Teatro rispetto al Mondo, che tende a esorcizzarlo come un rito pericoloso e inutile". Il Teatro ha mantenuto questo suo ruolo destabilizzante? L'aver ripercorso la tradizione senza interventi invasivi ha disatteso lo spirito progressista della pièce, cristallizzandola in quel medesimo contesto "rustego" che essa stessa censura. Ma se passo indietro registico c'è stato, è stato generoso rispettoso ed elegante, dettato da un amore per l'Autore palpabile, perciò apprezzabile e apprezzato.

Visto il 09-07-2015
al Romano di Verona (VR)