La regia di Vinicio Marchioni porta in teatro un classico imperdibile della cinematografia italiana: I soliti ignoti, film del 1958 con il quale Mario Monicelli fotografò in maniera straordinaria l’Italia degli anni ’50 dirigendo un cast unico.
Il capolavoro di Monicelli si aggiudicò due Nastri d’Argento e la candidatura agli Oscar del 1959 come miglior film straniero grazie anche a un cast eccezionale con Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Totò e Claudia Cardinale.
Con questi presupposti non è senz’altro semplice portare in scena un’opera di questa portata, ma il lavoro di Vinicio Marchioni alla regia e l’adattamento a quattro mani, a cura di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli, è stato indubbiamente efficacie.
Innanzitutto la messinscena mantiene il titolo originale, I soliti ignoti, così come l’ambientazione temporale (il 1958) e i nomi dei protagonisti. Anche l’adattamento teatrale resta fedele all’originale tuttavia rispetto al film, per necessità sceniche, sul palco i luoghi sono ridotti e alcuni personaggi accorpati, senza però stravolgerne la storia.
Un gruppo di ladri maldestri e scalcinati
Roma. Secondo dopoguerra. Nella fiorente ripresa economica i palazzinari si arricchiscono costruendo in periferia, mentre la povertà affligge la gran parte della popolazione. Un Paese povero e allo stesso tempo carico di vitalità, come il gruppo sgangherato protagonista de I soliti ignoti, personaggi che non rubano per arricchirsi, ma per fame. Disperati che cercano di sopravvivere alla miseria, ma sempre con etica. Ladruncoli improvvisati e goffi, pronti al colpaccio che li sistemerà: svaligiare il Monte di Pietà.
Così il vecchio Capannelle, attanagliato da una fame atavica, il siciliano Ferribbotte, che vuole assicurare una dote alla sorella Carmela, Mario che ha trascorso l’infanzia in un istituto e Tiberio, afflitto dalla responsabilità di assicurare un futuro alla moglie e al figlio di pochi mesi, si uniranno a Beppe il Pantera, pugile mancato, e a Dante Cruciani, lo scassinatore professionista, per il colpo della vita. Cosa può andare storto?
Una comicità bella e d’altri tempi
La rappresentazione ha il pregio di riportare in vita una comicità antica, semplice e sana, che risulta ancora capace di far ridere il pubblico. L’adattamento è ben curato e gli escamotage drammaturgici sono efficaci (l’introduzione di Capannelle, il funerale, i monologhi di Cosimo e Mario), in favore, però, di un ritmo narrativo meno dinamico rispetto a quello cinematografico.
Molto buone le interpretazioni di Giuseppe Zeno e Fabio Troiano capaci di caratterizzare con nuova vita i rispettivi personaggi senza imitare ne scimmiottare Gassman e Mastroianni. L’intero cast risulta molto affiatato, sia nei movimenti sul palco sia nei dialoghi, dando l’impressione d’essere una spensierata compagnia di amici. Molto buone anche le interpretazioni di Salvatore Caruso (Capannelle) e Antonio Grosso (Mario): efficaci con le battute e con il linguaggio non verbale, capaci di scatenare grandi risate nel pubblico.
La scenografia fissa e sviluppata in verticale, in stile industrial, ad opera di Luigi Ferrigno risulta funzionale in tutte le scene, mai di contorno, oltre a ricreare in maniera affascinante l’ambientazione degli anni Cinquanta.
Interessante anche l’utilizzo delle luci, capaci di sottolineare bene alcuni momenti significativi e di sopperire alla mancanza di altre location (come in occasione del funerale o dei ladri intenti ad entrare nell’appartamento).
Di eccezionale realismo, infine, la scena successiva al fallimento del furto, con tutti gli attori a tavola a mangiare: tempi e modi riescono, alternativamente, a far riflettere e ridere lo spettatore.
In conclusione I soliti ignoti è una trasposizione riuscita, senz’altro uno spettacolo che merita di essere visto.