In una stanza bianca adorna solo di un divano, una poltrona ed un tavolino si staglia, contro la porta d’ingresso, la figura solitaria di un piccolo omino in pigiama che guarda dalla spioncino preoccupato dell’ignoto reale che si cela oltre quell’uscio. Si sintetizza con immediatezza, sin dalla prima scena, il soggetto della pièce, I vicini (in replica in questi giorni al Teatro Nuovo di Napoli) nata dalla penna del giovane e già pluripremiato autore, regista, attore genovese: Fausto Paravidino.
Se da un canto c’è Lui, il protagonista maschile identificato dall’autore dal solo pronome personale, con la propria paura dell’ignoto, del diverso, dello straniero (per l‘appunto il vicino di casa) che può attentare potenzialmente alla tranquillità della propria quieta esistenza borghese, d’altro canto la sua compagna, Greta, ne è incuriosita e profondamente attratta. La donna troverà infatti nella giovane, eccentrica, decisa (sino ad essere prevaricatrice) coppia di nuovi vicini, tutto l’interesse e la fascinazione per questo elemento di novità che immesso nelle loro vite, scardinerà il routinante e fragile equilibrio emotivo della coppia. Riflesso diretto, forse, dell’atavica dialettica uomo-donna, tra il primordiale conservatorismo maschile e la curiosità che, così come detto dalla tradizione, è propria della donna.
Una narrazione che si fa immagine riflessa di un percorso psicanalitico di conoscenza del sé e delle proprie paure, reali o immaginarie che siano. Un’analisi all’interno della quale diviene elemento partecipe l’immagine, onirica o forse ectoplasmica, della vecchia vicina morta da qualche anno. Questa, percepita dai soli soggetti femminili, porta a sublimare l’incomprensione tra le parti, rafforzando la già presente sensazione d’inquietudine, fino a rendere totalmente labili i confini tra reale ed immaginario.
Paravidino, adottando plurimi registri espressivi, mixa un semplice interno psicologico alla Pinter col un neo-realismo cechoviano. Accenna deboli monologhi alla Woody Allen, enfatizzando al contempo in maniera eccessiva le apparizioni della vecchia vicina morta, con gravi toni di suspense da classico film dell’orrore.
Un senso di sospensione del reale, così fortemente voluto, e poi abbandonato di colpo a favore di un realismo spiazzante. Si giunge infatti all’ultima scena in cui la vecchia vicina morta, in piena luce ed al centro del palcoscenico, narra della propria vita trascorsa tra la paura della guerra e quella di una vita da spendersi nella solitudine della presunta perdita del marito soldato. Un passaggio che, per quanto attiene alla messa in scena, non può che lasciar perplessi se si considera che l’interpretazione dell’anziana è resa mistificando i tratti dell’attrice con spesso cerone carnascialésco e fingendo una, a dir poco parodistica, cantilenante voce roca e tremolante.
Un lavoro che nel suo insieme pecca di genuinità. Un artefatto che, seppur portato in scena da professionisti, si avvicina più al buon prodotto d’artigianato che ad un’opera dall’accezione artistica.