IDOLI

Il crepuscolo degli Idoli.

Il crepuscolo degli Idoli.

Idoli che crollano e ceneri spazzate via da un mocio vileda. Vecchi guerci in carrozzina con pistole giocattolo e tristi alberi di Natale per coppie scoppiate. Nessuna virtù e nessuna grazia. Un sessuomane innamorato e una prostituta virtuale. Un’urna rubata per un seno rifatto e una famiglia di inetti e approfittatori. Il cielo è ormai senza dei e chi si addormenta sotto la neve non si accorge di morire.

Un testo, quello di Gabriele Di Luca (finalista al Premio Hystrio 2011), che sonda i baratri dei mali moderni, parole per stomachi forti e abituati alla cattiveria più atroce. Dietro alle storie narrate la miseria e il vuoto, dentro ai personaggi un’anima piatta e arida che non cerca né sollievo né fuga. Apatia, piattume e meschinità per sei personaggi in cerca di un autore ormai morto e sepolto.

Non è il crepuscolo degli idoli di Nietzsche, che schiacciava col martello ogni barlume di autorità, di credenza, di fede e in ciò c’era una violenza giustificata dalla volontà di ri-creare nuovi ideali: Di Luca usa invece un martello pneumatico e sgretola il terreno sicuro delle nostre abitudini consolidate, facendoci crollare la terra sotto i piedi. Si apre una voragine non solo per noi umani ma anche per gli dei. Non c’è più velleità, non c’è tentativo di ricostruzione.

I personaggi di questa commedia nera (anche se direi, incolore) non aspirano a sostituire nuovi valori a quelli vecchi e superati, non vogliono nulla, o, meglio, vogliono il nulla. Sembrano sotto effetto di un’anestesia prolungata che li rende neutrali alla vita, nemmeno vegetali, perché i vegetali crescono grazie alla luce del sole. Ma di luce ce n’è ben poca in "Idoli". Una luce dall’alto, potente e ristretta, che colpisce con violenza le nuche dei personaggi tratteggiando ombre inquietanti. Una luce claustrofobica e minimale, come minimale è la scenografia: un divano, un albero di Natale, una carrozzina, un’urna. Pochi oggetti, perché stavolta ci sono anche gli attori, i personaggi, a fare da oggetto. I rapporti personali si riducono a commercio, lo schermo di un computer è la finestra sul mondo privilegiata, gli uomini diventano cose, il frigorifero lo spazio dove contenere un corpo, la testa un oggetto dove scagliare una bottiglia di birra. Su tutti prevale l’idolo del denaro: è il denaro, prima del sesso, a muovere ogni cosa, il Primo Motore Immobile di aristotelica memoria. Si fa sesso per denaro, si ruba per denaro, si muore per denaro, si desidera che la vita di un genitore sia più lunga possibile, ma solo per denaro.

Non si vive più per essere felici (la felicità non è più neanche un miraggio, è un lontano ricordo di epoche trascorse), ma si vegeta per accumulare cose e magari togliersi ogni tanto piccoli sfizi inutili e idioti come comprare scatole natalizie blu e rosse con impressi degli scoiattoli (o erano castori?). Le cose sono inutili come la vita. Il corpo di una ragazza fracassa a terra con lo stesso rumore di un’urna che va in frantumi. Fra tutta questa desolazione, fa capolino ogni tanto un barlume di intatta e pura poesia, momenti di inedita spontaneità che contrastano col clima falso e ipocrita di tutta la commedia. E allora ecco che il ragazzino si innamora veramente della puttana, perché lui è un buono anche se non vuole esserlo, ecco che il padre non vuole restare da solo e chiede alla moglie di rimanere in salotto con lui, ecco i ricordi sessuali di un nonno morente, ecco che la ragazza implora perdono alla nonna. E quelle lacrime che precipitano sulle ceneri appena sparse, bruciano più di qualsiasi altra cosa, perché hanno il dono della verità, dell’essere vere. In un mondo che ormai di vero non ha nulla.

Gli attori sono stati tutti all’altezza del testo. E non era semplice, perché in poco più di un’ora di spettacolo, parlare di nichilismo, solitudine, noia, morte e sesso, non è un’impresa da tutti. Inoltre, essendo una commedia nera, si poteva rischiare una recitazione sopra le righe e poco credibile. Cosa che è stata invece evitata con cura e maestria. E l’affluenza del pubblico ha confermato il valore di un testo e le capacità espressive di una compagnia ancora giovane ma che ha sicuramente qualcosa da dire. E che sa bene come dirlo.

Visto il 09-12-2011
al Carlo Goldoni di Venezia (VE)