Che sia l'irrefrenabile voglia di svagarci in tempo di perdurante pandemia, a dar vita alle tante edizioni de Il barbiere di Siviglia proposte in giro? Pure CortinAteatro ha inserito nel suo cartellone estivo il capolavoro rossiniano, portando alla Alexander Girardi Hall una produzione dall'impronta decisamente giovanile. E con una mise en scène quasi completa stavolta - non solo concertistica, come per La traviata proposta lo scorso anno - visto che i tempi (ed i vaccini) finalmente lo permettono. Resta però l'empasse del distanziamento, che riduce a metà la capacità della sala cortinese: questo Barbiere fra le vette dolomitiche in verità avrebbe meritato un pubblico più numeroso.
Direttore preciso, orchestra un po' meno
L'Orchestra Filarmonia Veneta, in formazione quasi cameristica, è nelle mani del trentacinquenne Jacopo Cacco. Segnalatosi in un recente master di Giancarlo Andretta, il maestro trevigiano rivela polso fermo, un talento musicale ben formato, notevole attitudine alla concertazione; e si intravede una forte ricerca di varietà ritmica e di colori. Però per giudicarlo meglio lo vorremmo a capo d'una compagine meno distratta ed imprecisa, come purtroppo appare in questa occasione la Filarmonia. Il Coro La Stele - formazione amatoriale – è stato preparato con grande cura da Matteo Valbusa.
Quanto alle voci, Bruno Taddia presenta un Figaro pirotecnico, spontaneo, scatenato e spiritoso in scena sin dalla celebre cavatina d'ingresso, motivo per cui perdoniamo volentieri l'inopportuno ricorso a certi falsettoni e qualche piccola sbavatura vocale; quello che conta è la piena riuscita del personaggio. Francesco Brito è un Almaviva dal temperamento spigliato, dal timbro chiaro e svettante, dal fraseggio abbastanza espressivo: «Se il mio nome» la risolve accompagnandosi da sé alla chitarra, e la cosa funziona bene. Ma non sempre sono precisi gli abbellimenti, e non sempre ben timbrati gli acuti, un vero peccato.
Quello di Rosina è un personaggio difficile, ambiguo, per l'oscillazione fra patina melanconica e guizzi peperini. Il ruolo calza a pennello a Paola Gardina, che altre all'indubbia padronanza della tecnica – le colorature non sono né pompate né artificiose, ma ben sgranate – mette in campo un timbro vellutato, dalle accattivanti bruniture, bella verve scenica e frizzante comunicativa.
Un Don Bartolo scoppiettante
Strano incontrare un Bartolo in polo sportiva e braghe casual: ma quello tratteggiato da Biagio Pizzuti non è un vegliardo bavoso, bensì un cinquantenne ancora giovanile, guizzante e venale, in cerca di riscatto amoroso. Ed è interpretato con giusto brio, buona profusione di colori, morbida omogeneità di voce e e sillabato perfetto dal baritono salernitano: doti già ammirate al Filarmonico di Verona nel recente tour de force del logorroico Parlatore eterno di Ponchielli. Decorosa la statura vocale del Don Basilio di Enrico Rinaldo; Alex Martini è un solido, elegante Fiorello; la giovane Federica Gasparella annaspa un po' nella sua Berta.
Messa in scena nelle mani di tre giovani esordienti
Tre menti giovani per dare concretezza ad un budget modesto. E ci riescono. L'idea generale porta dritta all'avanspettacolo sbragato e caciarone d'un tempo che fu: sul palcoscenico Fabio Carpene colloca una cortina di fili iridescenti a far da sipario, qualche sedia dorata e un tavolino. Proprio il minimo indispensabile. Sceglie per i personaggi vesti moderne: Figaro, per dire, che ricorda nella figura il mitico Ciccio Ingrassia indossa un candido camice da barbiere, un palestrato Basilio una t-shirt nera con scritto STAFF.
La regia di Tommaso Franchin – al suo debutto nella lirica - sceglie di non forzare o stravolgere il libretto, ma di esagerarne un po' la comicità in modo surreale e frenetico, grazie anche alla versatilità scenica degli interpreti a disposizione. Nell'insieme lo spettacolo funziona e diverte, benché scorra un dejà-vu di spunti; e pazienza se non resterà fra quelli da ricordare. Il light design lo dobbiamo a Manuel Garzetta.