Inizia con una lunga scena alla Godot, “Il calapranzi” di Harold Pinter. Ed è costruito di didascalie e battute, di indicazioni precise e scrupolose su movimenti, pause, silenzi. Ma non è un dramma dell’assurdo, o non solo.
È soprattutto un thriller, che vede rinchiusi in uno scantinato due killer, Ben (Lorenzo Costa) e Gus (Ivana Monti), in attesa di indicazioni per il loro prossimo incarico. In uno spazio angusto e squallido, i due si scambiano frasi di convenienza, sguardi, considerazioni. Uno squarcio di tempo che potrebbe essere considerato banale, se non fosse per il fatto che i due stanno aspettando di uccidere qualcuno.
Un dramma sull’attesa e sul progressivo incremento della tensione, dell’agitazione, del nervosismo. Un dramma sull’inquietudine, con un terzo protagonista - il calapranzi dello spazio, vecchia cucina sotterranea di un ristorante - che sembra avere vita propria e spedisce ordini nel mezzo delle conversazioni dei due. E così, tra considerazioni sul fatto che non ci sono finestre per rendersi conto del tempo che passa, animate discussioni su partite viste anni prima, osservazioni sul maggiore spappolamento delle donne rispetto agli uomini, quando vengono uccisi, pian piano affiora una strana inquietudine. Tra notizie lette e rilette da un quotidiano e gli ordini di pollo e flan dal piano di sopra, Gus inizia a non essere più in grado di stare fermo, a spostarsi continuamente nello spazio (che sarebbe potuto essere ancora più efficace se reso maggiormente claustrofobico). E tutto il gioco delle allusioni, delle frasi di cui non si era afferrato chiaramente il senso, dell’agitazione di lei e del freddo (o imbarazzato) disinteresse di lui si chiarifica nell’ultima immagine, quando capiamo, inevitabilmente, che la vittima che stavano aspettando era Gus stesso.
Sono particolari le scelte che i due registi-attori hanno fatto per questa messa in scena, prima tra le quali il fatto di rendere Gus una donna. La stessa Ivana Monti spiega che la scelta è dettata dalla sensibilità spiccatamente femminile di Gus: si preoccupa del tè; di come vengano pulite gli “esiti del loro lavoro”; di quanto le donne si rompano più degli uomini, perché sono fatte di tessuti più fragili; delle tazzine; dell’efficienza della cucina di cui dispongono.
Sono i due attori a disegnarci le personalità dei personaggi: Gus è sulla soglia, al limite del pentimento, prova un misto di schifo e dolore nei confronti del suo lavoro, sta per cedere; Ben invece è severo, distaccato. Forse proprio in quanto già complice, non vuole pensare al duro compito che gli è stato assegnato, quello di uccidere il suo compagno. E quindi è sempre più innervosito e impacciato, non sa cosa rispondere alle domande di Gus sulla situazione (e il calapranzi lo salva sempre dall’imbarazzo, mandando giù un ordine che distrae, una sorta di deus ex machina confezionato su misura). E per quanto Gus percepisca un cortocircuito nel lavoro di questa volta (è un posto peggiore, questa volta; non hanno un orario, questa volta; non hanno da mangiare, questa volta; c’era qualcuno prima, questa volta) non se ne va, non scappa, non permette alla paura di prendergli alla testa se non alla fine, in un ultimo disperato e fallimentare tentativo di sottrarsi alla situazione.
Il testo è sapiente, perfetto, preciso come un orologio, ma forse non è stato resto con sufficiente distacco ironico. Nel tentativo di rendere i personaggi veri, Monti e Costa sfiorano più volte la pantomima e non arrivano a comunicare tutta la potenziale tragica comicità inserita tra le righe dall’autore. Ma Pinter vale sempre, è un drammaturgo intelligente e riflessivo, e fa in modo che nei suoi testi resti soprattutto lui a parlare. E dopo agitazioni e scontri, silenzi e imbarazzi, immobilità e tic nervosi, alla fine – quando Gus viene ributtato da invisibili complici nella stanza, poco dopo aver ripassato (nell’unico momento di cambio di luci, che trasformano la scena da un forno asfissiante a un ambiente freddo e asettico) le fasi esatte dell’omicidio che avrebbe dovuto portare a termine – Ben gli punta contro la pistola. Ma non spara.
Visto il
al
Argomm
di Milano
(MI)