Anche se non si può dire che sia stata proprio premiata dell'interesse del pubblico trevigiano – che tristezza vedere alla prima tanti posti vuoti in sala! - l'idea di questa accoppiata affidata ai giovani studenti dei conservatori veneti è comunque riuscita e stimolante. Tra i più riusciti esiti del Donizetti comico, Il campanello e Il giovedì grasso sono due farse in un atto con dialoghi, parzialmente in sapido vernacolo partenopeo, in seguito trasformati in recitativi. Entrambe appartengono infatti al felice periodo 'napoletano' del compositore bergamasco, e furono presentate sotto il Vesuvio a distanza di qualche anno. Per prima toccò a Il giovedì grasso, che il librettista Domenico Gilardoni ricavò dalla commedia francese Le nouveau Pourceaugnac di Charles Delestre-Poirson ed Eugène Scribe (richiamante a sua volta ovviamente il Monsieur de Pourceaugnac di Molière), ad essere portata in scena al Teatro Reale del Fondo, nel febbraio 1829. Per seconda ad Il campanello - o meglio, Il campanello di notte - il cui libretto Donizetti medesimo per risparmiare sulle spese di allestimento ricavò da un divertente vaudeville sempre francese di Léon Lévy Brunswick, Mathieu-Barthélemy Troin e Victor Lhérie, intitolato La sonnette de nuit, che vide la luce l'1 giugno 1836 al Teatro Nuovo. Entrambe ennesima e palese conferma, tra l'altro, di come il teatro leggero di Oltr'Alpe costituisse una fonte inesauribile per gli autori nostrani.
Ma se Il campanello ha goduto da sempre di considerevole fortuna ed è quindi ben noto al pubblico – anche le incisioni abbondano, a cominciare dalla memorabile Fonit-Cetra diretta nel 1949 dal trevigiano Alfredo Simonetto, e dal 1994 è disponibile l'edizione critica Ricordi – al contrario Il giovedì grasso può contare su rarissime rappresentazioni in tempi moderni. anche perché – va detto - manca una sua partitura accreditata. Tanto che, perduto il libretto originale ed in assenza di una edizione completa – e men che mai di una edizione critica – per portarla in scena in questa occasione si è dovuto ricostruirne una versione plausibile, sulla base di quanto oggi disponibile: cioè un manoscritto autografo (ma incompleto dei recitativi) custodito a S. Pietro di Majella in Napoli, una copia milanese del locale Conservatorio/Fondo Noseda, ed uno spartito un po' pasticciato reso disponibile dalla Fondazione Donizetti di Bergamo. Già di più, peraltro, di quanto utilizzato in precedente tentativo da Vito Frazzi ed Eva Riccioli Orecchia, destinato ad alcune esecuzioni bolognesi dirette da Mario Rossi nel 1969.
Il compito di ricostruire la sua partitura completa è stato in questo caso iniziato da tre studenti di OperaStudio, il progetto professionale del Conservatorio B. Marcello di Venezia, e poi portato a compimento dal direttore Franco Trinca e da Maria Chiara Bertieri. E per aggiungervi i dialoghi mancanti il regista Francesco Bellotto ha voluto tentare un'ipotesi ricostruttiva – che mi pare peraltro ben riuscita – basandosi su una coeva edizione italiana della commedia di Delestre-Poirson e Scribe. Con in più un piccolo, geniale tocco di inventiva: il protagonista buffo de Il giovedì grasso, commedia che è ambientata a Parigi - cioè monsieur Sigismondo Futet, finto avvocato - altri non è che Don Annibale Pistacchio, protagonista del precedente Campanello; il quale, stabilitosi a Parigi, si è portato appresso il servitore Cola – parte buffa di fianco - col quale naturalmente si esprime nel colorito dialetto di casa sua.
Dopo aver immaginato così un simpatico collegamento tra i due lavori – il cui protagonista principale in questa edizione trevisana rimane sempre il basso-baritono Filippo Morace – Bellotto ha elaborato per entrambe le operine una regia dal ritmo vorticoso, spigliata ed ammiccante, cosparsa di piccole gags che le rendono ancor più divertenti. Il campanello, tipico esempio di piccante pochade (la gelosia vendicativa di Enrico, ex-amante della sposina Serafina, il quale ricorrendo ad ingegnosi e coloriti travestimenti impedisce al maturo speziale Don Annibale Pistacchio – riuscitissima sagoma comica - di consumare le nozze prima di partire per Roma a riscuotere un'eredità. La commedia forse più “nera” di Donizetti, con una trama dal fondo amaro sotto la vernice brillantissima, la giudica Elvio Giudici. Il giovedì grasso, svagata commedia vagamente moralistica che vede una sciocca beffa di un gruppetto di snob parigini capitanati da Sigismondo Futet, alias in questo caso Don Annibale – essere ordita ai danni di un presunto provincialotto, il giovane ufficiale limogino Ernesto; beffa che però, per l'intuito e la scaltrezza di quest'ultimo, va a ritorcersi alla fine contro di essi.
Il bravissimo Filippo Morace, attore dalle mille risorse e cantante musicalissimo, versatile ed espressivo, è come detto presente in entrambe le operine; ma vede senza dubbio ne Il campanello, con la colorita figura di Don Annibale, maggiori possibilità di esprimere tutta la sua variegata ed irresistibile verve comica. A metter i bastoni fra le ruote al maturo speziale, troviamo il giovane baritono fiorentino Dario Shikhmiri, elegante e brioso Enrico: parte che lo vede impegnato a districarsi molto bene in spassosi travestimenti. Gli altri interpreti sono Mara Gaudenzi (una brillante Serafina), Francesca Gerbasi (Rosa), Antonio Cappetta (il servo Cola, altro ruolo buffo). A far da contrappunto e da coretto, stanno gli invitati alla festa di nozze, vale a dire Kalliopi Petrou, Mary Rosada, Valeria Girardello Diego Rossetto, Alvise Zambon, Francesco Basso; interpreti in buona parte provenienti dai corsi veneziani di OperaStudio.
Nell'altro lavoro fanno da contorno al Sigismondo di Morace in primis il tenore Andrea Biscontin, chiamato a sostenere un ruolo – quello di Ernesto Rousignac, vero protagonista della farsa – evidentemente al di sopra dei suoi mezzi, e risolto quindi in maniera tentennante e insoddisfacente. Ma a tale proposito giova ricordare che tale virtuosistica figura – che comprende la pirotecnica entrata di «Servi, gente» e le impennate dell'affettuoso duplice duetto con Nina «Che intesi...Un raggio in quel detto» - fu pensata all'epoca per il mitico Giovanni Battista Rubini, una meraviglia di possibilità tecniche. E poi, a seguire, Francesco Basso (il colonnello), Mara Gaudenzi (la fedifraga Camilla), Valeria Girardello (aggraziata interprete della tessitura sopranile di Nina), Diego Rossetto (Teodoro), Francesca Gerbasi (Rosa), Antonio Cappetta (di nuovo Cola), Alvise Zambon (Giulio), Kalliopi Petrou (la ciarliera cameriera), Mary Rosada (la moglie del colonnello).
Non si poteva pretendere dall'Orchestra del Consorzio tra i Conservatori del Veneto – compagine formata da studenti, e quindi per sua natura estemporanea – altro più che una discreta coesione, ed una modesta precisione esecutiva. Nondimeno Franco Trinca ne ha cavato il massimo possibile, trasfondendo nella sua direzione ritmi spediti ed incalzanti – senza però mai premere a fondo il pedale - e mettendo in piena luce, per quanto possibile, i rutilanti luccichii strumentali delle due partiture. Decisamente costruttivo anche il suo propedeutico ruolo di attento e sensibile concertatore, che l'ha reso sicuro riferimento per l'impegno richiesto ai meno esperti tra i cantanti.
Angelo Sala ha realizzato delle scenografie molto gradevoli, veramente ingegnose nell'apparente semplicità: tre grandi apparati d'arredo che in un attimo si trasformano da pareti domestiche in armadi delle spezieria, pieni di vasi ed ampolle; e che poi rivoltati divengono l'elegante salotto parigino di maison Futet. Quanto ai costumi ideati da Alfredo Corno, non c'è che dire: sono assolutamente deliziosi nel disegno e raffinati nella realizzazione. Luci ben curate da Roberto Gritti.
(foto Piccini)