In dialetto veneziano, il campiello è una piazzetta nella quale confluiscono una serie di vicoli e stradine, luogo di incontro di coloro che vi abitano, propizio alle discussioni, agli idilli, alle “baruffe”… Di tanto in tanto, il fragile equilibrio di questo microcosmo si spezza, in genere per motivi futili, per poi ricomporsi con la medesima facilità e disinvoltura, come se nulla fosse stato. Nell’incantevole opera di Ermanno Wolf-Ferrari (che vide la luce alla Scala il 12 dicembre 1936 su libretto di Mario Ghisalberti, ispiratosi fedelmente alla pièce goldoniana del 1756), i capricci, i risentimenti e le meschinerie dei personaggi sono dipinti con un distacco sereno e divertito che richiama alla mente il Falstaff verdiano. In questa evocazione nostalgica e affettuosa di una Venezia crepuscolare, le passioni si esprimono a tratti con violenza, attraverso esplosioni orchestrali deliberatamente marcate, per poi dissiparsi rapidamente e trascolorare in melodie fresche e delicate. Il risultato è quello di una partitura elegante, raffinata e moderna al tempo stesso, che impreziosisce un intrigo semplice e spassoso, ma non privo di chiaroscuri sul piano della psicologia dei caratteri. Ci si chiede davvero perché quest’opera (al pari dei Quatro Rusteghi, altro capolavoro di Wolf-Ferrari) non trovi più spesso la via del palcoscenico.
Ne ricordo una bella versione proposta a Bologna nel 1998, nella quale il regista Nanni Garella aggiornava l’azione, ambientandola negli anni ’40 del Novecento, sullo sfondo di un campiello contornato da edifici modesti e fatiscenti. Il bianco e nero dominante di quell’allestimento richiamava esplicitamente la malinconia e il disincanto del cinema neo-realista. La strada scelta per questa produzione veneziana, offerta nella suggestiva cornice del Teatro Malibran (che affaccia su un campiello che ben potrebbe essere quello dove si svolge l’opera), è decisamente più tradizionale. Si tratta di un allestimento proveniente dal Teatro Sociale di Rovigo, presentato a Venezia nell’ambito del progetto “I teatri del Veneto alla Fenice” e firmato da Paolo Trevisi, che fu assistente di Cesco Baseggio, vera e propria icona del teatro dialettale veneto del ventesimo secolo. Il contesto scenico e i costumi sono tradizionali e ispirati alla prima produzione veneziana del Campiello del 1946. Un’operazione-nostalgia che, però, funziona solo in parte: si pensava che parrucche settecentesche, cipria e mossette avessero preso definitivamente la via della soffitta, soprattutto in considerazione dell’evoluzione interpretativa del teatro goldoniano, tesa a mettere in secondo piano la farsa a buon mercato, privilegiando gli aspetti più genuinamente umani. Qui, invece, siamo al Goldoni oleografico che ormai non usa più. Oltretutto, la direzione degli attori si attesta sua una convenzionalità piuttosto stantia e quei pochi sorrisi che strappa li strappa più per l’inerzia di una partitura splendida che non per un approfondito lavoro sugli attori, alcuni dei quali sono davvero troppo intenti a scrutare il Maestro, perdendosi così ogni spontaneità.
Sul podio Stefano Romani dirige con cura e mestiere l’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, che pur senza eccellere si mantiene su livelli più che discreti. Per quest’opera priva di particolari ostacoli vocali non sono richieste grandi voci, ma piuttosto interpreti che abbiano buona padronanza della scena e del fraseggio. In generale il cast di questa rappresentazione veneziana è adeguato, anche se, come detto, un lavoro meno superficiale sulla recitazione avrebbe dato frutti ben altrimenti frizzanti e incisivi. Meritano una menzione particolare la Gasparina, ad un tempo buffa e toccante, di Claudia Pavone e la Dona Pasqua di Max René Cosotti, storico interprete di questo ruolo.