Un monologo irruente e fluido, introdotto da un prologo fatto persona – come in una tragedia greca – che propone una sorta di antefatto psicologico e orienta l’attenzione verso i temi apparentemente secondari del testo, in realtà dominanti: le ragioni delle piccole angosce individuali, nascoste dietro oggetti e persone che abitano il quotidiano e pronte a diventare abissi irrevocabili; la paura della morte, naturalmente, come sintomo preordinato di una costellazione di ansie, trasposizioni personali degli archetipi del proprio gruppo sociale o minuscole crepe della soggettività. Per tutta l’ampiezza del testo, di indiscutibile forza narrativa, Palazzolo riconosce che l’uomo è una stratificazione di simboli, talvolta mutuati dai topos della comunità, talvolta concepiti nella privatissima sfera psichica dell’individuo. Sono i piedi, così dispone l’ossessione che governa il testo, a farsi fonte della quiete e del tormento del protagonista.
Degna di nota l’esecuzione dei due attori: misurato e ipnotico Anton Giulio Pandolfo nel breve prologo, in un costume nero che evidenzia la nudità quasi oscena dei piedi; più dinamico e impetuoso Rosario Palazzolo nell’esposizione della fabula, che prende corpo nell’immaginario dello spettatore soltanto attraverso la mimica verbale del suo interprete, giacché la scena e perfino le luci restano essenzialmente immobili: una scelta coraggiosa, e tuttavia ben riuscita, che riscuote infatti un lungo e intenso applauso del pubblico.
La Corte della Formica - Napoli, 4 novembre 2006
Visto il
al
Crystal
di Palermo
(PA)